L’identità del Primo Maggio

«Spezza il tuo bisogno e la tua paura di esser schiavo, il pane è libertà, la libertà è pane». Con queste parole iniziava la dichiarazione resa dall’imputato Albert Richard Parsons, nel processo iniziato il 21 giugno 1886 innanzi al giudice Joseph Gary. Tutto era cominciato con la manifestazione annunciata dalla Federation of Organized Trades and Labor Union of the United States and Canada nel congresso dell’ottobre 1884, al fine di rivendicare l’approvazione, entro il 1° maggio 1886, di una legislazione che imponesse la giornata lavorativa di 8 ore in tutto il territorio nazionale statunitense.

Quel primo maggio a Chicago sfilò un enorme corteo, già cosmopolita (in ragione dell’alta componente di lavoratori immigrati negli USA), come ben presto lo diventerà il movimento dei lavoratori. Al comizio in Haymarket Square gli oratori parlarono lingue diverse: inglese, tedesco, polacco, boemo.

Alla testa di quel corteo, del tutto pacifico, c’era proprio Parsons, che teneva per mano la moglie e la figlia di 7 anni. Lo accusarono di aver concorso alla morte di un poliziotto per lo scoppio di una bomba nei disordini avvenuti nei giorni successivi, dopo che nel frattempo la polizia aveva ucciso alcuni lavoratori. Lo condannarono alla pena capitale assieme ad altri dirigenti sindacali: furono i martiri di Chicago. Sei anni dopo, il nuovo governatore dell’Illinois, dopo aver esaminato le carte processuali, annullerà le sentenze, grazierà i tre sopravvissuti e «bollerà con forza l’infamia del giudice Gary e dei falsi testimoni» (M. Massara, C. Schirinzi, M. Sioli, Storia del Primo Maggio, Longanesi, Milano, 1978, p. 18). Sarà il congresso di Parigi del 1889 (quello in cui fu creata la Seconda Internazionale) ad istituire la giornata del Primo Maggio come festa internazionale dei lavoratori.

Frattanto, in Italia, poco prima dei fatti di Chicago, Filippo Turati componeva i versi dell’Inno dei lavoratori, che sarà a lungo l’inno ufficiale delle manifestazioni del lavoro nel nostro Paese (il titolo originario era Il canto dei lavoratori, inno del Partito Operaio Italiano, pubblicato per la prima volta nella rivista La Farfalla, il 7 marzo 1886 e subito dopo ne Il Fascio Operaio, 20-21 marzo 1886). In quegli anni era proibito cantarlo in pubblico. Lo stesso Turati, quando fu arrestato in occasione dei moti del pane di Milano (9 maggio 1898), repressi nel sangue dalle cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris, ebbe fra le imputazioni quella di aver composto i versi dell’Inno dei lavoratori (intonato in quei giorni dagli operai all’uscita dalla fabbrica Pirelli).

Pane e libertà (le parole pronunciate da Parsons a Chicago) diventarono ben presto la più semplice, ma efficace delle formule in cui si racchiuse la promessa di riscatto del lavoro, anni dopo portata in grembo dalla nostra Costituzione. Al tempo in cui essa era in gestazione, si poteva ancora morire celebrando il lavoro, come a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, per mano di banditi di mafia, esecutori di oscuri mandanti.

Ma il Primo Maggio non commemora solo lutti. È un giorno di festa, che celebra l’imponente cammino di riscatto compiuto dal Lavoro nel corso del tempo: un cammino nel nostro Paese certamente puntellato dai principi costituzionali, a loro volta veicolati dalle spinte sociali sottostanti. E «il sistema dei valori coevo alle grandi lotte sociali di emancipazione, ed a queste legato, mantiene certamente la sua validità: i valori non sono né effimeri, né soggetti a variazione di breve o medio periodo». Lo disse Gino Giugni (intervistato nel 1994 da Alberto Orioli), difendendo la formula contenuta nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

Tuttora, il Primo Maggio non è una ricorrenza rituale e astratta. Lo ha detto lo scorso anno il Presidente Mattarella. E aggiungerei che non è la Festa di tutti e di tutto. Non perché sia una festa divisiva (secondo un aggettivo in voga di questi tempi), ma semplicemente perché è la festa di chi lavora e vive del proprio lavoro. Non sulla proprietà, non sulla rendita, non sul consumo, ma sul lavoro è fondata la Repubblica.

A sua volta, il riscatto del lavoro evoca il valore-pilastro della giustizia sociale, quella a cui l’Organizzazione Internazionale del Lavoro pensò di affidare il progetto (forse, il sogno) di una pace universale e durevole (come afferma la sua Costituzione). Un pilastro ancora fragile, fragilissimo, inesistente per una intera fetta di umanità, ad esempio quella rimasta sepolta sotto il crollo del Rana Plaza, a Savar, in Bangladesh, il 24 aprile 2013. Una settimana dopo sarebbe stato il 1° maggio. 1.129 persone non lo festeggiarono, morendo nel crollo: erano lavoratori e lavoratrici tessili a cui fu imposto di restare al lavoro, nonostante le evidente crepe sui muri notate e denunciate nei giorni precedenti. I capi di abbigliamento prodotti da quelle fabbriche li indossiamo ogni giorno.

Nel suo giorno di festa è doveroso ricordare che resta il lavoro il fondamentale strumento di contrasto all’emarginazione sociale ed economica. Non il lavoro purchessia, ma quello in cui riceva adeguata tutela il bisogno di sicurezza della persona che lavora rispetto ai rischi del mercato: nella salubrità dei luoghi, nel contenimento dei tempi, nella stabilità dell’occupazione, nell’adeguatezza del reddito che se ne trae, nella protezione da eventi (malattia, infortunio, gravidanza, e così via) che ne impediscono lo svolgimento.

C’è chi sostiene che il lavoro non sia più il principale strumento di realizzazione dell’identità di ciascuno di noi. Il lavoro come ideologia, si intitolava un fortunato libro di Aris Accornero del 1980. Un tempo, la domanda «cosa fai?» intendeva dire «che lavoro fai?». Oggi, se chiedi «cosa fai?» ad un giovane che lavora, non è detto che ti risponda, parlando del suo lavoro. Resta da capire, e si tratta di una riflessione quasi antropologica, quanto l’identificazione nell’altro dal lavoro sia espressione di una scelta di vita, di una forma di emancipazione, o sia semplicemente il riflesso del decadimento della qualità del lavoro disponibile. Certo è che la difesa del lavoro non può essere ridotta ad una questione solo tecnica. La difesa del lavoro è una questione di democrazia, di distribuzione di quella quota di potere sociale e di dignità, che consente a ciascuno di essere libero.

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