L’inflazione nell’era della de-globalizzazione

Il passato spesso ritorna, anche nei fenomeni economici, e il primo ventennio del nuovo secolo ci ha già riservato il ritorno della crisi finanziaria, della recessione, e ora dell’inflazione.

Lo scoppio della crisi finanziaria, nel 2007-2008, aveva subito evocato i fantasmi della crisi del 1929. Di nuovo, una bolla finanziaria paralizzava il sistema del credito e trasmetteva i suoi effetti rovinosi all’economia reale, dando origine a quella che sarebbe stata battezzata come la «grande recessione», a causa della sua intensità e della sua estensione. L’ottimismo di coloro che avevano teorizzato la fine del ciclo economico si infrangeva di fronte all’evidenza dell’instabilità dei mercati e di fronte alle molteplici fragilità che la crisi metteva a nudo: gli eccessi della finanziarizzazione e della deregulation, gli alti livelli di indebitamento privati e pubblici, i difetti di regolamentazione di mercati sempre più globalizzati, l’erosione delle basi fiscali, il crescere delle diseguaglianze, la progressiva precarizzazione del lavoro, e via discorrendo.

Nonostante questi fenomeni, e i rischi ad essi connessi, fossero largamente noti e oggetto di numerose denunce, l’irrompere della crisi aveva creato grande sgomento tra gli esperti e i policy makers, con l’immagine del «cigno nero» che esemplificava tutto il senso di sorpresa e la percezione di una anomalia inattesa.

 Un analogo senso di sgomento e di sorpresa ha accompagnato la risorgenza dell’inflazione. Da tempo la memoria dell’inflazione si era andata affievolendo e aumenti persistenti dei prezzi erano un fenomeno sconosciuto alle generazioni nate negli ultimi due decenni del secolo scorso.  Dopo la crisi finanziaria, e per oltre un decennio, il fenomeno da combattere era diventato piuttosto la deflazione, cioè la discesa dei prezzi, e le banche centrali hanno avuto buon gioco a praticare politiche fortemente espansive, che consentivano al tempo stesso di sostenere la ripresa dell’attività economica e dell’occupazione e di assolvere alla loro missione primaria, quella della stabilità dei prezzi.

E tuttavia non mancavano preoccupazioni circa l’efficacia delle politiche nell’invertire le tendenze deflazionistiche. Dal lato della politica monetaria, tassi d’interesse ormai intorno allo zero e perfino negativi sembravano porre seri limiti all’azione delle banche centrali; anche dal lato delle politiche di bilancio, gli alti livelli di indebitamento restringevano gli spazi di manovra per politiche espansive. Del resto, il ristagno dei prezzi era considerato parte integrante di quella «stagnazione secolare» che molti economisti annunciavano come il probabile scenario per un futuro non breve.

Il quadro è mutato a partire dalla primavera del 2021. Prima negli Stati Uniti e poi in Europa i prezzi hanno preso a crescere in maniera sostenuta. Tra le cause, il forte rimbalzo della domanda dopo la drammatica caduta nei lunghi mesi di lockdown dovuti alla pandemia, accentuato dai programmi pubblici di sostegno. Un rimbalzo che si è scontrato con evidenti difficoltà di adeguamento dell’offerta. Attività cessate, persistenti interruzioni nelle catene del valore mondiale, difficoltà di reperimento della manodopera hanno causato tensioni settoriali sui prezzi. In Europa sono stati in primo luogo i prezzi dell’energia a impennarsi, guidati dal prezzo del gas naturale, che ha fatto da traino ad aumenti generalizzati dei prezzi energetici. Alla fine del 2021 il prezzo del gas naturale in Europa era decuplicato rispetto ai livelli del 2020, con forti ripercussioni sui prezzi degli altri prodotti energetici e soprattutto sui costi del dell’elettricità. L’indice dei prezzi al consumo, intanto, era salito oltre il 5%, quando un anno prima era vicino allo zero.

Per alcuni mesi, da questa e dall’altra parte dell’oceano, gli economisti si sono divisi tra coloro che consideravano l’inflazione un fenomeno temporaneo, destinato a restare settorialmente localizzato e a rientrare in breve tempo, e coloro che anticipavano l’inizio di una tendenza destinata a trasmettersi all’intero sistema dei prezzi e a perdurare. La discussione era tutt’altro che accademica, perché dalla diagnosi discendevano diverse prescrizioni di policy, indirizzate in primo luogo alle banche centrali. Se un fenomeno di breve durata legittimava un atteggiamento attendista delle autorità monetarie, e quindi una stabilità dei tassi d’interesse, una diagnosi di inflazione persistente implicava una reazione decisa da parte delle banche centrali in difesa della stabilità dei prezzi, con l’inevitabile rialzo dei tassi.

Lo scoppio della guerra Russo-Ucraina ha spiazzato la diagnosi benigna di un’inflazione come fenomeno temporaneo. I prezzi dell’energia sono rimasti molto elevati, e le pressioni inflazionistiche si sono estese ad altri comparti, come quello alimentare, quello metallurgico, quello delle costruzioni, fino ad investire virtualmente tutti i settori produttivi.

Secondo le indicazioni preliminari di Eurostat, l’ufficio statistico europeo, a maggio scorso l’indice dei prezzi al consumo era aumentato dell’8,1% rispetto a un anno fa, con la componente energetica aumentata del 39,2%. È un dato che ci riporta indietro di oltre quarant’anni, e fa temere il peggio. I rincari diffusi, ma soprattutto di beni essenziali come l’energia e gli alimentari, stanno erodendo i redditi delle famiglie, e colpiscono soprattutto le famiglie a più basso reddito, che destinano ai beni essenziali una parte maggiore del loro bilancio.


Il persistere e il diffondersi dell’inflazione ha reso inevitabile una risposta delle banche centrali. La Banca Centrale Europea ha un obiettivo di un’inflazione «prossima al 2%, nel medio periodo», e lo scostamento dell’inflazione dall’obiettivo si è andato drammaticamente allargando nel corso degli ultimi mesi.  I vertici della BCE hanno annunciato a più riprese una progressiva «normalizzazione» della politica monetaria – che in pratica significa la cessazione di acquisti straordinari di titoli pubblici e il ritorno a tassi d’interesse positivi.  Il 9 giugno il Consiglio direttivo della banca centrale ha deciso di aumentare i tassi di riferimento di 25 punti base a partire da luglio, riservandosi di intervenire con nuovi rialzi a settembre. Nonostante la reazione negativa dei mercati, si tratta di un aumento molto modesto, che riflette il prevalere di un orientamento attendista e prudente all’interno della BCE. Un orientamento che non ha mancato di suscitare critiche tra coloro che da tempo premono per l’abbandono della politica di tassi negativi, ma che in realtà si fonda su un apparato analitico articolato e lungimirante.

L’economia europea, ancora alle prese con i postumi, anzi con gli strascichi, della crisi pandemica, sta fronteggiando un nuovo shock di proporzioni inedite. Soltanto pochi mesi fa tutti gli istituti internazionali scommettevano sulla prosecuzione della robusta ripresa economica iniziata nel 2021, con una crescita prevista per il 2022 superiore al 4%. Le stime più recenti – da ultimo quelle dell’OCSE hanno quasi dimezzato queste previsioni. Per la zona euro, la BCE ha previsto una crescita del 2,8% nel 2022 e un ulteriore rallentamento nel 2023, al 2,1%. E il timore è che potrebbe trattarsi di stime ottimistiche.

Il forte rallentamento congiunturale dovuto alla guerra è sicuramente uno dei fattori che hanno indotto la BCE alla cautela. L’aumento dei tassi d’interesse, infatti, aggrava le difficoltà del sistema produttivo e l’indebolimento dell’economia. Ma non si tratta soltanto di questo. Il fatto è che le tensioni sui prezzi potrebbero persistere – e probabilmente persisteranno – anche in presenza di un forte rallentamento dell’economia. Per questo si torna a parlare insistentemente di stagflazione, cioè di una situazione in cui si combina stagnazione economica e inflazione.

Dunque, un’inflazione dovuta non a un surriscaldamento dell’economia ma piuttosto a quelli che potremmo definire i costi della «de-globalizzazione». Lo ha spiegato bene la presidente della BCE Christine Lagarde in un blog-post del 23 maggio: «La guerra Russo-Ucraina potrebbe essere un punto di svolta della “iper-globalizzazione”, rendendo la geopolitica più importante nel definire la struttura delle catene globali del valore. Questo potrebbe far sì che le catene del valore diventino meno efficienti per un periodo e che durante la transizione si creino pressioni più persistenti sui costi per l’economia. Inoltre, quello che cambierà non è soltanto dove i beni saranno prodotti ma anche come. La guerra probabilmente accelererà la transizione verde come un modo per ridurre la dipendenza da attori ostili. Questo potrebbe tenere alta la pressione sui prezzi dei combustibili fossili, come pure di quelli di metalli rari e minerali, anche se potrebbe favorire la caduta di altri prezzi».[1]

Dalle analisi della BCE traspare sia il riconoscimento che la politica monetaria potrebbe risultare poco efficace per venire a capo dell’inflazione in tempi brevi sia la consapevolezza che il tentativo di combattere l’inflazione soltanto con la politica monetaria potrebbe infliggere costi elevatissimi all’economia. Questo non significa affatto sottovalutare il ruolo della politica monetaria nel combattere l’inflazione e i suoi effetti sociali devastanti. Significa piuttosto guardare con realismo ai limiti e agli effetti collaterali non voluti delle politiche che si attuano per combatterla.

Negli anni della grande recessione i vertici della BCE, e soprattutto l’allora presidente Mario Draghi, hanno segnalato più volte i limiti della politica monetaria, e hanno richiesto con forza che una maggiore integrazione fiscale dell’UE e riforme economiche nazionali ed europee facessero la loro parte nel contrastare la crisi. Ora come allora è più che mai indispensabile sostenere l’azione delle autorità monetarie con politiche pubbliche nazionali ed europee coraggiose e coerenti.

È essenziale che governi nazionali e istituzioni europee si impegnino congiuntamente a fare quanto possibile per contrastare la spirale inflazionistica. Sono molti gli strumenti che possono servire a questo scopo: dai sussidi o trasferimenti per compensare le perdite degli attori più vulnerabili, alla sorveglianza sui prezzi per arginare pratiche speculative, all’informazione puntuale, alla promozione di una cultura collettiva avversa all’inflazione perché consapevole delle sue conseguenze.

Data l’origine esterna delle pressioni inflazionistiche, è cruciale che all’azione dei governi nazionali si associ quella dell’Unione europea.

In risposta alla pandemia, l’Europa ha sostenuto e integrato le politiche dei governi nazionali in vario modo: con la sospensione delle regole del Patto di Stabilità; lanciando il  programma SURE per l’assicurazione contro la disoccupazione; istituendo una linea di credito speciale del Meccanismo Europeo di Stabilità per fronteggiare la crisi sanitaria; mobilitando la Banca Europea per gli Investimenti, e, soprattutto, dando vita al programma Next Generation EU, che ha offerto ai paesi non soltanto la prospettiva di un rapido recupero delle perdite produttive dovute alla pandemia, ma anche quella di una ripartenza all’altezza delle sfide poste dalla doppia transizione verde e digitale.  Nel fare tutto questo la Commissione a guida von der Leyen ha dato prova di una straordinaria capacità di leadership e di inventiva.

La crisi ucraina e la minaccia inflazionistica richiedono oggi analogo coraggio e lungimiranza, con la messa in campo di iniziative che non lascino i governi nazionali da soli alle prese con sfide palesemente al di là della loro portata. La proposta di istituire un tetto del gas a livello europeo, anche se difficile da attuare, va in questa direzione. Ma è solo una delle molte cose che l’Unione europea potrebbe e dovrebbe fare  per dare contenuti e qualità europea agli sforzi nazionali per contrastare l’inflazione, per segnalare ai mercati finanziari  la sua compattezza e per consolidare il favore dei cittadini europei così faticosamente ricostruito dopo anni di crescente sfiducia e scetticismo.

Un’ultima considerazione. La grande fiammata inflazionistica degli anni  ’70 del secolo scorso ebbe effetti dirompenti sull’economia europea anche a causa della forte instabilità del mercato dei cambi. Le valute più deboli, come la lira, andarono incontro a svalutazioni che aggravarono e prolungarono la spirale dei prezzi, mentre la divergenza dei cambi creava grande incertezza e frammentava un mercato europeo ancora in via di formazione. Oggi abbiamo l’euro, che rende le nostre economie meno esposte a rincari ripetuti dei beni importati derivanti da svalutazioni monetarie. L’euro è sicuramente un argine potente contro l’inflazione importata. Ma l’euro è una costruzione incompleta, e i limiti di questa costruzione diventeranno di nuovo evidenti se si verificheranno forti divergenze nei tassi di inflazione tra paesi. La messa a punto di politiche genuinamente europee per fronteggiare l’inflazione è un tassello importante, e forse vitale, del processo di completamento dell’UEM.

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