L’Italia e il delitto Moro: una storia pubblica e privata

Enrica Ferrara, Mia madre aveva una cinquecento gialla

Oscar Buonamano

Nei primi due paragrafi del libro Enrica Ferrara ha già svelato al lettore gli elementi su cui costruisce il suo esordio narrativo, una scelta che svela l’ordito letterario che ci apprestiamo a leggere.

La storia di una bambina che diventa ragazza e della sua famiglia che si sovrappongono alla storia del suo Paese, l’Italia. Sono gli anni più drammatici della giovane democrazia italiana, quella del terrorismo che insanguinò la Penisola. Anni che culminarono con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, uno degli uomini più influenti della politica italiana.

La grande storia che interseca la storia quotidiana, persone normali che vivono vite normali con aspirazioni normali. E pur nell’eccezionalità degli eventi narrati, dovuti ad esigenze di sceneggiatura, (perché questo libro è già come un film), la storia narrata continua ad essere una storia di persone normali che, tutte insieme, contribuiscono a scrivere la grande storia.  Il libro è un film necessario per indagare sui lati oscuri della vicenda legata al rapimento ed uccisione di Aldo Moro, che a distanza di quasi cinquant’anni permangono. È quasi un film per il montaggio dei paragrafi, per l’andare avanti e indietro nella narrazione.

Storia quotidiana come questo lacerto di vita vissuta da molte delle donne e degli uomini oggi sessantenni. «Guardai nella stessa direzione e vidi le uova fresche nel piatto. Alcune avevano ancora attaccate le piume e la cacca di gallina. Feci una smorfia poco convinta. “Si, a patto che lo fai buono come quello di zio Peppino” […] “Quando lo mangiavi non si sentivano i granelli di zucchero sotto i denti e poi”, aggiunsi con aria malandrina, “quando zia Alba si girava, lui ci metteva dentro qualche goccia di caffè appena fatto” […] Lui aveva smesso di battere e si era accorto di aver esagerato. Mi prese in braccio. “Gina, Papaone scherza! Mangiati l’uovo, guarda è pronto!”».

L’uovo battuto, o l’uovo sbattuto come diceva mia zia Giovannina, è stato un punto fisso delle estati di molti, quasi tutti, i miei coetanei. L’uovo battuto o l’uovo sbattuto con un po’ di caffè o, per chi poteva osare di più con il marsala, ci proietta, mentalmente, a quegli anni. Belli e spensierati per chi era adolescente, drammatici e neri per chi era già adulto.

Il giorno che rapirono Aldo Moro me lo ricordo bene, ero a scuola. Non fu, esattamente, un fulmine a ciel sereno, ci si aspettava un epilogo clamoroso che sancisse la cesura tra democrazia e lotta armata e, come in realtà accadde, la fine del terrorismo nel nostro Paese.

Quel pomeriggio con mia madre andammo a trovare un nostro parente in ospedale. Quando ci vide, dopo averci ringraziato per la visita, ci pregò di tornare a casa e di non uscire in attesa degli sviluppi del rapimento di Moro. Vivevo in una città alla periferia dell’impero neppure sfiorata dalla lotta armata perché insignificante politicamente e marginale da un punto di vista industriale ed economico. Eppure, quel nostro parente ci raccomandò di stare chiusi in casa in attesa degli eventi. Questo era il clima politico di quegli anni, un clima che Enrica Ferrara è capace di far rivivere nelle pagine di Mia madre aveva una cinquecento gialla.

Così come descrive bene la Napoli di quegli stessi anni, la sua composizione sociale, la struttura urbana. «La sua casa era a dodici minuti a piedi da casa mia. A quel tempo Napoli era una città che faceva paura solo se vivevi fuori del centro, a Fuorigrotta, alla stazione, nei paesi della cintura vesuviana. Se però abitavi in quello che chiamavano il “centro buono”, la zona residenziale, grosso modo si stava tranquilli. Così avevo il permesso di andare da lei di pomeriggio senza essere accompagnata da un adulto. Sara abitava alla Riviera di Chiaia, in un elegante palazzo antico con concierge. Il nostro appartamento, invece, si trovava in una viuzza laterale della splendida piazza dei Martiri, che era il centro del mondo per i signori di Napoli. La strada si chiamava via Cappella Vecchia ed era un vicolo cieco, ma non bisognava chiamarlo così di fronte a mamma. Per lei la nostra strada aveva la dignità di una via – lo diceva anche il nome – e chiamarla vicolo era peccato mortale. “Vicolo” faceva venire in mente la casba maleodorante e intricata dei Quartieri Spagnoli, dove le lenzuola sventolavano in alto, sui fili tesi da una parte all’altra della strada. Là c’erano i “bassi”, le case-negozio dei contrabbandieri camuffati da venditori di caramelle che dal retrobottega spacciavano hascisc, erba e qualche pistola. Tutto questo alla nostra strada era alieno. C’erano solo professionisti e commercianti molto danarosi, vecchi e nuovi ricchi».

Il dramma personale e privato che vive la famiglia Carafa viene accentuato dalle conseguenze morali e pratiche del terremoto dell’Irpinia del 1980, ulteriore evento traumatico nazionale che segnò uno spartiacque tra ciò che era prima e ciò che sarà poi.

In modo altrettanto puntuale emerge la lacerazione che, sempre, la separazione dei genitori crea in ambito familiare. Ci si divide, si patteggia, si creano fazioni. Esattamente come accadde alla famiglia Carafa, sebbene la separazione, in questo caso, non sia dipesa da incomprensioni amorose.

«Speravo che papà finalmente si accorgesse di noi, si liberasse di tutti i suoi lacchè e venisse ad abbracciarci […] Aveva un maglione a collo alto nero che non gli avevo mai visto prima e gli dava un’aria banditesca. Mia madre era sembrata molto colpita dal suo aspetto. Si era avvicinata a lui e lo aveva abbracciato e baciato. Poi era rimasta a lungo appoggiata alla sua spalla, come se avesse bisogno di qualcuno che la sorreggesse per non cadere. Se n’erano stati così fino a quando Papaone non si era staccato da lei con un sorriso e le aveva ricordato che c’erano anche gli altri».

Sofia, la mamma della protagonista, moglie di Mario Carafa, e Betta, la sorella della protagonista, contro il marito e padre. Gina, la protagonista e voce narrante, dalla parte di Mario Carafa, il padre.

Negli anni Settanta e Ottanta la politica era uno degli argomenti di cui più si discuteva in famiglia così come in società, monopolizzata dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista Italiano, divideva la società italiana. A partire dagli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta il Pentapartito, ovvero una coalizione di cinque partiti che faceva perno proprio sulla Democrazia Cristiana ed escludeva il Partito Comunista Italiano, governava l’Italia e rese inutilizzabile, politicamente, un terzo dei voti degli italiani, quelli del Pci. Questa contrapposizione, iniziata negli anni Cinquanta, attraversava tutti gli strati sociali e tutti gli ambienti, lavorati e familiari. I bambini e le bambine come Gina e Betta erano abituati a sentir parlare di politica e di politici e spesso non era un buon parlare.

«“Il signor Bava non è solo un politico che magna più degli altri, è anche un mezzo delinquente, un camorrista. Lo sapete cos’è un camorrista?”. Betta disse subito di sì mentre io feci di no con la testa. Un’altra parola nuova. Dovevo ricordarmi di prenderne nota per i miei romanzi. Mamma cominciò. “Un camorrista è come un re che ha il suo piccolo regno, con i suoi sudditi, la polizia e i soldati. Ha pure le sue banche e i suoi lavori, ma non sono cose legali. È una cosa vergognosa”».

Nei ringraziamenti che l’autrice scrive alla fine del libro, mi sono soffermato su questa frase: «una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato» e avendola letta prima d’iniziare il romanzo, faccio sempre così, mi è tornata alla mente quando ho letto questo passaggio, «Papà non perdeva occasione per mostrarmi ai suoi amici, ai colleghi, alla nonna. Era convinto che fossi speciale ed era per questo che un po’ ci credevo anch’io. Se non fosse stato per lui – pensai quella notte del 23 dicembre 1980, prima di finire il libro di Tom Sawyer per la ventunesima volta alle prime luci dell’alba – sarei stata una bambina come le altre. Non potevo perderlo di nuovo».

Un’occasione per fare autocritica sul modo di essere padre, soprattutto se hai due figlie.

«A volte c’era anche papà nel sogno. Faceva le cose che fanno i padri: le insegnava a guidare, la aiutava a trovare una strada su una cartina; le spiegava il significato di parole nuove; la accompagnava all’altare. La scortava e vegliava su di lei tenendosi a distanza, come facevano i padri di una volta».

Gina scrive tutte le parole che non conosce su un quaderno perché le torneranno utili quando scriverà il suo romanzo, perché Gina ha intenzione di fare la scrittrice, propensione evidente soprattutto quando, nella finzione narratologica di Enrica Ferrara, descrive i particolari di ciò che ha davanti a sé. Un esercizio di stile propedeutico alla sua, futura, professione che trova la sua migliore espressione quando fa rivivere usi e costumi, tradizioni popolari ormai abbandonate e sostituite, oggi, dalle nuove tecnologie.

«L’unica cosa che m’interessava era andare a vedere la preparazione della cena. Speravo che qualcuno avesse comprato il capitone e mi chiedevo se lo stessero uccidendo in cucina. Mi ricordai del passato Natale, quando papà aveva portato il capitone vivo a casa della nonna e aveva finito per inseguirlo fino in soggiorno, con noi bambini che scappavamo da tutte le parti e ci nascondevamo dietro al divano».

Non meno incisiva quando osserva e descrive l’abilità attoriale che hanno tutti i genitori, capaci di cambiare tono di voce e postura a seconda dei contesti e dell’interlocutore. A questo proposito vi consiglio di leggere pagina 118.

Il montaggio cinematografico determina l’ordine di apparizione dei fatti. Il privato prevale sul pubblico e anche quando il pubblico occupa il centro della scena, viene sempre mediato dagli accadimenti privati. Questo non impedisce alla Ferrara di ricostruire e prendere posizione su accadimenti storici della Prima Repubblica come, per esempio, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e tutto ciò che ruotava attorno a questo drammatico evento. Il rapimento di un assessore regionale liberato grazie ad un riscatto miliardario e al coinvolgimento di uno dei capi della malavita organizzata. Ma soprattutto, la funzione che è propria del romanzo, le consente di mettere in fila episodi la cui dinamica è poco chiara, il caso Ambrosoli, l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, senza sostenere l’onere della prova in un tribunale. «O meglio, sono il frutto di un intreccio tra realtà e finzione in cui, per parafrasare quanto scrive Leonardo Sciascia, “la verità” potrebbe essere stata “generata dalla letteratura”».

La storia trova un punto di svolta quando Sofia, la mamma della protagonista, Betta, la sorella della protagonista, e Gina, la protagonista, partono per la prima vacanza estiva senza Mario Carafa, il papà della protagonista. Un viaggio epico durato dodici ore, interrotto  da tante soste per far riprendere fiato alla cinquecento gialla, per mangiare e discutere di Giulietta e Romeo, versione originale e versione Dire Straits.

La meta, il campeggio di Isola Capo Rizzuto è una svolta non solo da un punto di vista narratologico, ma è una svolta nella percezione della vita di Gina, la protagonista.

La bambina diventa grande e colloca persone e accadimenti nella loro giusta dimensione. La vita all’aria aperta asseconda le pulsioni e se anche le difese mentali, che solitamente alziamo di fronte a noi stessi e agli altri, cedono, le conseguenze, la conseguenza è una crescita complessiva. In questo caso la crescita è personale e dell’intero nucleo familiare, Gina capisce concretamente che al cambiamento delle persone corrisponde, sempre, un cambiamento del corso delle cose.

L’epilogo di questo romanzo è contenuto nelle ultime parole scritte nei ringraziamenti, a romanzo concluso dunque. Un epilogo sul quale non si può che essere, finalmente, tutti d’accordo, «Alla fine, nomi e cognomi non significano niente, conta solo l’amore».

P.S.: Ho amato e amo molto questo romanzo, mentre lo leggevo e anche adesso che ho finito di leggerlo, perché è stato come entrare nell’orma del piede di Gina. Poi, non è determinate ma è significativo, l’unico campeggio della mia vita l’ho fatto ad Isola Capo Rizzuto.


Enrica Ferrara, Mia madre aveva una cinquecento gialla, Fazi Editore, Roma 2024

Leggi anche

Are you sure want to unlock this post?
Unlock left : 0
Are you sure want to cancel subscription?
-
00:00
00:00
Update Required Flash plugin
-
00:00
00:00