Lo scorso 20 maggio la legge n° 300 del 1970, meglio conosciuta come Statuto dei lavoratori, ha compiuto cinquant’anni. È stata, e per molti versi lo è ancora, la più importante legge sul lavoro del nostro paese. Chi scrive non appartiene alla generazione che ne ha vissuto l’elaborazione e la sua prima attuazione, ma a quella che si è formata con lo Statuto dei lavoratori.
L’approvazione dello Statuto rappresenta l’anno zero del diritto del lavoro italiano: una legge fondamentale che ha avuto una portata complessiva, sul piano del rapporto di lavoro, pari a quella che la Costituzione italiana ebbe sul piano delle relazioni sindacali con gli articoli 39 e 40. Con questa legge il legislatore supera, per la prima volta, lo schema paternalistico autoritario che il codice civile aveva conferito alla disciplina del rapporto di lavoro, cedendo il passo ad una visione più moderna della gestione dei poteri datoriali, che vengono così bilanciati dalla fisiologica presenta del sindacato nell’organizzazione aziendale; un salto culturale notevole, prima ancora che sociale, rispetto alla condizione precedente.
Nonostante le modifiche subite, la legge n° 300 detiene un valore – non soltanto simbolico, ma anche effettivo – ancora attuale: non è soltanto una delle leggi di tutela del lavoro più avanzate al mondo, è anche una legge dotata di una capacità e di una efficacia come poche altre, in materia di lavoro, nel nostro ordinamento giuridico.
Lo Statuto dei lavoratori è stato generato per essere efficace: non soltanto per i diritti sostanziali concepiti – ha portato i principi costituzionali lavoristici in fabbrica, e più in generale nei luoghi di lavoro – ma anche per l’insieme delle norme ideate per garantire effettività a quei diritti sostanziali; veri e propri congegni normativi, questi ultimi, che hanno consentito a quei principi di tutela sostanziale di diventare operanti.
Due esempi su tutti: sul piano del rapporto, l’articolo 18 – con la reintegra nel posto di lavoro – ha garantito effettività a tutta la legislazione di protezione contro i licenziamenti discriminatori, illegittimi ed ingiusti. È la norma simbolo dello Statuto dei lavoratori, che lo ha reso famoso nel mondo. Norma di cui sono state date rappresentazioni sovente troppo ideologizzate, polarizzando così per molti anni le opinioni e le posizioni non soltanto degli attori sociali, economici e politici ma anche dei giuslavoristi, che si sono divisi in opposte fazioni tra chi ha considerato l’articolo 18 una norma utopistica, una vecchia ascia da guerra da sotterrare, e chi invece un meccanismo sanzionatorio ineccepibile; sul piano delle relazioni sindacali, invece, con l’articolo 28 – definito il «vero cardine della tutela dell’azione sindacale» (Freni-Giugni) – il legislatore garantisce effettività a tutto l’impianto normativo (statutario e non) dei diritti sindacali, con la previsione di una procedura di immediata repressione, abbinata ad un impianto sanzionatorio efficace, di ogni contegno antisindacale del datore di lavoro.
Sul piano della tecnica normativa, lo Statuto è pertanto una legge ancora molto attuale: effettività e tecnica normativa – collocate all’interno di una logica assolutamente moderna basata sul contemperamento tra esigenze dell’impresa e tutela della soggettività del lavoro – finalizzate a «ricondurre i poteri datoriali in un giusto alveo» (così, la Relazione di accompagnamento alla legge elaborata da Giugno Giugni).
E dunque, tributatogli il doveroso omaggio bisogna chiedersi delle sue attuali condizioni di salute.
È un dato di fatto che il quadro complessivo entro cui si colloca questa legge è, oggi, profondamente cambiato sia per ciò che concerne l’organizzazione d’impresa, sempre più decentrata, delocalizzata ed esternalizzata, sia per ciò che oggi rappresenta l’organizzazione sindacale, anch’essa frammentata e molto più plurale.
Lo Statuto è stato costruito guardando ad una realtà ben diversa da quella che oggi tende ad essere prevalente: rispondeva ad un mondo del lavoro caratterizzato da un’unica fattispecie tipo (il lavoro subordinato) e stabile (a tempo indeterminato), il referente del social tipico degli anni 60, 70 e 80: l’operaio massificato che oggi non è più rappresentativo, o almeno non più in modo egemone, del lavoro nell’impresa.
Per dirla con Aris Accornero, si è passati dal mondo del lavoro a quello dei lavori.
Nell’attuale contesto socioeconomico, il potere imprenditoriale non si esercita più nelle dinamiche giuridiche tipiche del rapporto di lavoro, privilegiando l’utilizzo di nuove forme: l’imprenditore non è più interessato a fondare la propria organizzazione d’impresa sul comando o sul potere gerarchico.
Lo Statuto dei lavoratori ha davanti a sé, oggi, una complessità sociale ed economica non comparabile con quella che lo partorì: la globalizzazione, e una certa visione neoliberista dell’economia, hanno fortemente condizionato l’equilibrio tra i poteri sociali e le linee di politica del diritto degli ultimi anni.
La subordinazione da giuridica è diventata economica.
È ben evidente, dunque, la necessità di proiettare l’impianto statutario dentro una cornice diversa, più ampia e universalistica delle tutele del lavoro.
Da questo punto di vista, invero, lo Statuto è una legge troppo poco universalistica rispetto alle attuali esigenze di tutela del lavoro, che richiedono nuovi modelli normativi ed organizzativi: è sufficiente qui citare lo smart working – così massivamente sperimentato in chiave emergenziale nella parentesi Covid 19 – per intuire quanto poco si adatti la disciplina di fabbrica dello Statuto alla necessità di tutela di nuovi diritti, come ad esempio quello alla disconnessione.
Il diritto del lavoro, quindi, unitamente allo Statuto come sua parte fondamentale, necessita di nuovi paradigmi della soggettività sociale e di un nuovo universalismo dei diritti: in questa prospettiva, è interessante la direzione indicata dalla Confederazione europea dei sindacati (Ces/Etuc) che propone di estendere le tutele del diritto del lavoro a tutte le relazioni del lavoro, senza tener conto delle (vecchie) distinzioni tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.
Ovviamente, però, questa direzione non implica lo smantellamento delle tutele esistenti, ma piuttosto una capacità adattativa del legislatore di selezionare e non più standardizzare le tutele: un mix di universalismo e selettività, dove coniugare tutele più estese ma anche differenziate e modulate in ragione delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, delle diversità tipologiche dei lavori, nonché delle condizioni economiche delle parti (non soltanto del prestatore) e dei settori produttivi.
L’impronta di un percorso in tal senso vi è già: il legislatore l’ha sperimentata con la normativa sulle c.d. collaborazioni etero-organizzate dal committente (articolo 2, d.lgs. n° 81/2015) ove, nell’estendere la disciplina del lavoro subordinato anche alla figura del collaboratore la cui prestazione lavorativa sia in larga misura coordinata dal committente, affida alla contrattazione collettiva il compito di delineare la regolamentazione dei rapporti di lavoro in deroga alla disciplina del lavoro subordinato.
Il principale driver di questa capacità adattiva, oltre al legislatore, non potrà che essere il sindacato attraverso la contrattazione collettiva, e più in generale le parti sociali mediante nuove piattaforme concertative, sempre che gli attori sociali intendano accettare la sfida di svolgere questo ruolo anche oltre i confini tipici del lavoro subordinato.
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