A distanza di cinquant’anni è legittimo chiedersi se lo Statuto dei Lavoratori abbia qualche ruga.
Parliamo di una legge di civiltà, una importante conquista della classe lavoratrice che sancì libertà e diritti inviolabili; un passo avanti formidabile nel lungo percorso che ha condotto lavoratori e lavoratrici ad essere persone e non più solo denti di un ingranaggio organizzativo e che ha permesso loro di essere comunità anche all’interno dell’azienda, con il riconoscimento della piena agibilità sindacale sul luogo di lavoro.
La dobbiamo anche e forse soprattutto a Gino Giugni, giuslavorista, socialista e anni dopo ministro della Repubblica, senza dimenticare i ministri Brodolini e Donat Cattin e il ruolo che ebbero le organizzazioni sindacali che segnalarono per prime la necessità di una Legge Quadro sul lavoro all’indomani dell’autunno caldo.
Ma mi piace ricordare che fu una vittoria dei riformisti nei confronti dei massimalisti (una delle tante).
Massimalismo e riformismo sono sempre stati il discrimine lungo il quale, storicamente, si è divisa la sinistra e le politiche del lavoro sono stato il principale terreno di questo scontro. I massimalisti pensavano che non fosse possibile cambiare in meglio la condizione del lavoro salariato, ma che fosse necessario sovvertirne ordine e regole. I riformisti, invece, preferivano agire, non affidandosi a «slogan vuoti e inconcludenti» (Federico Caffè).
Va ricordato che una parte della sinistra non era favorevole alla legge perché – coerentemente con la sua matrice – era «troppo poco» o, addirittura, un’accettazione delle regole, opportunamente edulcorate, del capitalismo e dell’economia di mercato, salvo poi diventarne i primi difensori quando ci si è posti il problema se andasse rivista, o almeno ritoccata in qualche sua parte, in un mondo del lavoro completamente cambiato.
Oggi le organizzazioni del lavoro sono molto diverse: pensiamo soltanto che quando lo Statuto fu approvato dal Parlamento non esistevano i computer; il lavoro, nei suoi contenuti e la stessa azienda per la quale il lavoro si prestava, restavano gli stessi per 35 anni, o giù di lì. Il contratto a tempo pieno e indeterminato era la regola, le prestazioni lavorative più discontinue erano invece l’eccezione.
Abilità e competenze di lavoratori e lavoratrici e dunque la loro professionalità restavano più o meno le stesse, così come il loro ruolo in azienda, per l’intero arco della vita lavorativa e non esisteva, o quasi, la formazione continua. Le politiche attive del lavoro non si sapeva neppure cosa fossero; spesso l’inserimento in azienda si tramandava di padre in figlio e non si sceglieva una professione in ragione delle attitudini e delle motivazioni personali: l’importante era avercelo, un lavoro. Un altro mondo, certo. Ma ragioni di fondo e valori posti a fondamento dello Statuto non sono desueti, perché diritti e libertà non passano di moda e restano l’architrave della nostra Repubblica «fondata sul lavoro».
Per valutare l’attualità di una legge anche nei suoi risvolti meno valoriali e più applicativi, allora, bisognerebbe anzitutto riflettere sulla porzione della popolazione che ha un impiego e che svolge una professione alla quale la legge stessa, di fatto, si applica. Questa quantità è andata gradualmente erodendosi per i cambiamenti brevemente esposti ed oggi una gran parte dei lavoratori non sa neppure cosa sia una rappresentanza sindacale aziendale e forse non lo vuole nemmeno sapere; non si sarebbe mai giovata dell’(ex) articolo18 e forse non avrebbe voluto neppure giovarsene. Le persone non vogliono un lavoro, ma un buon lavoro.
Pur mantenendo i sacrosanti princìpi di libertà e i diritti fondamentali contenuti nello Statuto, a partire dal 1997 il legislatore, prendendo realisticamente atto di un mondo del lavoro del tutto diverso rispetto agli anni ’70, ha introdotto alcune riforme tutte nella direzione di un mercato del lavoro più aperto ed inclusivo, più flessibile, dove la stabilità del posto di lavoro non fosse un diritto, ma un’opportunità (con l’unica eccezione di quello che è stato definito, in modo altisonante, «Decreto Dignità» del primo Governo Conte, in controtendenza).
L’ultimo provvedimento in questo senso è stato, come tutti sappiamo, il cosiddetto Jobs act, legittimamente molto discusso, ma che ha definitivamente preso atto della necessità di conciliare la protezione dei diritti fondamentali per tutti i lavoratori nel mercato del lavoro (e non solo per gli ormai pochi inamovibili fortunati) con l’esigenza di flessibilità e adeguamento degli organici che il mondo della produzione inevitabilmente chiede e di far tornare prevalente, a determinate condizioni, il contratto a tempo indeterminato.
In questa prospettiva, è stato rivisto l’articolo 18 dello Statuto sul diritto alla reintegra in caso di licenziamento immotivato, ritenendo più giusto che un lavoratore o una lavoratrice cambi azienda, adeguatamente supportati, magari trovando un lavoro, perché no, migliore di quello che si è perso. Ho avuto modo di dire in passato che per ogni lavoratore inamovibile c’è un giovane, con le giuste competenze, che aspetta fuori dalla porta.
Non mi soffermo sulla revisione dell’articolo 19, risultato di un discutibile referendum promosso da gruppi movimentisti della sinistra, orientato a mettere in discussione un presunto monopolio delle organizzazioni sindacali più rappresentative, ritenute ormai più inclini al compromesso che al conflitto, lasciando l’argomento ad altri, se lo vorranno.
Ma forse, in fondo, tutto questo cambiamento altro non è che il risultato della graduale emancipazione delle masse, che ha portato i lavoratori ad essere più liberi non solo dal padrone, ma pure dal loro posto di lavoro, non sempre amato o semplicemente desiderato. Nella società della conoscenza, alla routine sono subentrate autonomia e responsabilità, alla fatica lo stress, alla ripetitività la creatività.
E allora il diritto del lavoro è tenuto a tenere conto di tutto questo: occuparsi con realismo di quei segmenti, ormai crescenti, di prestazioni che non sono né autonome, né subordinate, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, dove non si applica nessuno Statuto e nel cui limbo vivono, anche, un grande numero di sotto protetti.
E la frammentazione inesorabilmente prosegue nei difficili mesi che stiamo vivendo: qualcuno comincia a delineare una nuova dialettica ed una nuova distinzione: gli essenziali (quelli che debbono recarsi al lavoro comunque) ed i remoti (quelli che possono farlo da casa). Meglio essere un essenziale (tendenzialmente un lavoratore intellettuale, oppure anche un discriminato), o un remoto (un lavoratore che mantiene un legame fisico e morale con la sua azienda ed i suoi colleghi, oppure anche l’epicentro di una nuova forma di sfruttamento)? Penso ci vorrà del tempo per capirlo.
Si parla da anni di Statuto dei Lavori; non saprei esprimere un giudizio compiuto anche perché non si è mai ben capito di cosa concretamente si parlasse.
Ma, forse, anche grazie alla legislazione in favore dei diritti dei lavoratori, che ha contribuito ad emanciparli e a renderli più liberi e di cui lo Statuto è un pezzo fondamentale che è giusto celebrare, possiamo oggi leggere testimonianze come queste.
«Quando sei sicuro che per anni avrai un lavoro, allora subentra l’ansia dell’obbligo, del lavoro fisso […] stare tanti anni nella stessa azienda mi affaticherebbe mentalmente e subentrerebbe la noia. Invece così vedo persone nuove, mansioni differenti, mi dà un senso di libertà».
E ancora.
«Non ho alcuna sicurezza, però almeno faccio quel che mi piace fare. Piuttosto che avere sicurezza e fare una cosa che non mi piace, preferisco essere insicura». (Giovanna Fullin, Mauro Magatti, Percorsi di lavoro flessibile)
È veramente un mondo cambiato.
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