Lo Statuto dei lavoratori, un formidabile acceleratore del cambiamento

Maurizio Del Conte

La bollarono subito come «legge mal fatta», ma il tempo è galantuomo e lo Statuto dei diritti dei lavoratori resterà una tappa fondamentale nell’ormai lungo cammino del diritto del lavoro sviluppatosi attorno ai principi della Costituzione repubblicana.

La forza dello Statuto è stata nella la capacità di affermare un principio universale e indicare lo strumento concreto per la sua realizzazione: restituire dignità ai lavoratori promuovendo l’attività sindacale nei luoghi di lavoro. A Gino Giugni, illuminato dall’insegnamento di Otto Kahn-Freund, riuscì il miracolo di coniugare la forza della legge con lo spirito del «collective laissez-faire». La legge serve a fissare le regole del gioco, ma la vera partita la giocano le parti collettive che animano le relazioni industriali.

Alcuni principi, però, non sono negoziabili e la legge 300 del 1970 è stata un formidabile acceleratore del cambiamento, declinando in concreto i valori della Costituzione. Così è nel corpo dello Statuto che si trovano le prime regole cogenti in materia di discriminazione, munite – e per quei tempi era una rarità – di sanzione penale. La messa al bando di ogni forma di discriminazione per sesso, razza religione, opinioni politiche e sindacali è diventata una precondizione per il legittimo esercizio dell’attività di impresa.

Allo Statuto si deve l’intuizione che non può esserci dignità della persona senza tutela della sua riservatezza. Principi che oggi ci possono sembrare scontati, come il divieto delle indagini sulle opinioni dei lavoratori o delle perquisizioni personali, hanno prodotto una rottura con un passato in cui la proprietà dei luoghi del lavoro sconfinava nella espropriazione della sfera privata della persona. Prima ancora che si sviluppassero le tecnologie informatiche, lo Statuto vietava i controlli dei lavoratori attraverso impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo a distanza. Il diritto alla privacy – come scrisse Stefano Rodotà – è entrato nell’ordinamento giuridico italiano attraverso lo Statuto dei lavoratori. Un diritto alla privacy ante litteram e limitato ai luoghi di lavoro, ma che già individuava i pericoli di un controllo pervasivo e anelastico della persona, anche al di fuori dal proprio domicilio, nei luoghi dove si esprime la sua dimensione professionale.

Ma il vero strumento di protezione dinamica e incrementale dei lavoratori è stato collocato nella autotutela collettiva. Se il titolo secondo dello Statuto è dedicato al presidio della libertà sindacale rispetto a eventuali condotte repressive attuate del datore di lavoro, il titolo terzo segna una svolta nella tecnica regolativa, inaugurando la cosiddetta legislazione di sostegno alla attività sindacale. Sostegno che vede coinvolta la stessa controparte datoriale, che non può limitarsi a un atteggiamento passivo nei confronti del sindacato aziendale, ma deve farsi parte diligente nel rendere effettiva la presenza sindacale, mettendo a disposizione la strumentazione necessaria a una più efficacie azione collettiva e al suo radicamento nei luoghi di lavoro. Il legislatore statutario ha fatto una scelta precisa a favore di una istituzionalizzazione delle rappresentanze sindacali aziendali, in risposta allo spontaneismo sindacale che aveva raggiunto il suo apice nel cosiddetto «autunno caldo» delle lotte sindacali che avevano caratterizzato quella stagione, che stavano prendendo una pericolosa dinamica entropica, mettendo a rischio lo sviluppo di un ordinato sistema di relazioni sindacali

A questo proposito si è detto che con lo Statuto dei lavoratori la Costituzione è entrata nelle fabbriche. Se ciò e certamente vero con riferimento ai principi di tutela e di riconoscimento valoriale del lavoro, non altrettanto può dirsi proprio con riferimento alla architettura sindacale disegnata dai padri costituenti. Ad essa si è, infatti, sostituita una versione meno formalizzata e, soprattutto, meno verificabile in termini di effettiva rappresentatività delle rappresentanze sindacali aziendali. È con lo Statuto che si accantona l’aspirazione a pesare le diverse componenti sindacali in funzione dei loro iscritti e si consolida – o, meglio, si prova a consolidare –  il principio di pari dignità delle delegazioni sindacali ai tavoli negoziali. Ciò che ne risulta è un sistema della rappresentanza appeso al fragile filo del muto riconoscimento. Negli anni a seguire, con il logorarsi della unità sindacale e con l’erodersi della base complessiva degli iscritti, si accentuerà la tendenza alla competizione tra le diverse componenti associative che renderà progressivamente più fragile il fronte sindacale e spingerà le sue diverse anime a guadagnarsi spazi di agibilità attraverso le relazioni di volta in volta stabilite con i governi di turno.

La debolezza di un sistema di relazioni industriali incapace di formalizzare strumenti di verifica oggettiva della rappresentatività presenta oggi il conto, proprio in una fase di sconvolgimenti epocali che avrebbero necessità di essere accompagnati da una nuova stagione contrattuale in grado di supplire alla pochezza di idee della politica in materia di lavoro, diritti e mercato. I diversi tentativi di autoregolamentazione per via negoziale della rappresentanza e della esigibilità dei contratti collettivi non si sono dimostrati efficaci. Un fallimento che rende necessaria una riflessione senza preconcetti su un intervento regolativo del legislatore, che potrebbe anche limitarsi a recepire le regole già concordate dalle stesse parti sociali, ma sin qui rimaste ineffettive. Sarebbe questo un modo per coltivare lo spirito statutario che, lungi dall’essere quello di scolpire regole nella pietra, ha affidato alle relazioni sindacali il ruolo di motore del cambiamento.

Del resto, in questo mezzo secolo di vita lo Statuto ha subito ripetuti interventi di modifica, che hanno toccato quasi ogni sua parte. E tuttavia nessuna riforma ne ha mai messo in dubbio l’assetto valoriale, puntando semmai ad aggionarne la strumentazione in funzione dei mutamenti di contesto storico, sociale ed economico. Così è stato con l’ampliamento del perimetro della disciplina antidiscriminatoria, che è stata estesa ai comportamenti datoriali determinati da ragioni connesse all’handicap, alla età e all’orientamento sessuale. Come ben si può comprendere, la sensibilità socio-culturale del Paese si è profondamente evoluta rispetto a quella del 1970 e le norme Statutarie non potevano non tenerne conto.

Nell’ultima decade del secolo scorso, sotto l’impulso referendario, sono state modificate le regole dei meccanismi di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali stabilite nel testo originale del 1970, confermando la centralità del sindacato confederale, ma provando ad ancorarne la legittimazione a criteri oggettivi, come la effettiva partecipazione alle dinamiche contrattuali.

Già a partire dal 1990, ma in misura ben più incisiva nell’ultimo decennio, è stata rivista la tutela contro il licenziamento illegittimo. Nemmeno una norma dall’altissimo valore simbolico come l’articolo 18 ha resistito indenne al trascorrere del tempo. Eppure, anche con il più radicale intervento del c.d. Jobs Act del 2015, successivamente temperato dalla Corte costituzionale, non è mai stato messo in discussione l’obbligo di giustificazione del licenziamento e la conseguente sanzionabilità. Neppure è stata rimossa la tutela reintegratoria per i casi più gravi di illegittimità del provvedimento datoriale. Ad essere messa in discussione è stata l’idea che la reintegrazione fosse lo strumento più efficace per proteggere il bene costituzionalmente tutelato della occupazione, in un mercato dove la competizione tra imprese e tra lavoratori non può essere più contenuta entro i confini nazionali.

Ecco, la riforma incompiuta dello Statuto dei lavoratori è stata proprio quella che avrebbe dovuto spostare la tutela del lavoro oltre la dimensione del singolo contratto. Un tutela che dovrebbe essere universale e accompagnare le persone lungo tutto l’arco della vita professionale. Una tutela che dovrebbe aiutare non solo a mantenere l’occupazione ma a garantire l’arricchimento delle competenze, trasformando le fasi di transizione occupazionale in opportunità di crescita professionale. Perciò, per celebrare degnamente questo cinquantesimo anniversario, si dovrebbe guardare al futuro più che al passato e completare lo Statuto dei lavoratori destinando le risorse e la strumentazione necessarie alle politiche attive del lavoro.

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