Leggendo i vari post che Facebook mi propone mi sono imbattuto nei giorni scorsi in questo interessante racconto: «Ho insegnato lettere per quasi 40 anni nei paesi di camorra e poi a Milano, ai nomadi, nelle periferie degradate e poi anche nelle scuole bene. Trovo che, al di là dei cambiamenti vorticosi che avvengono attorno a noi, i ragazzi di tutte le epoche siano abbastanza uguali dentro. Hanno bisogno di attenzione, di essere percepiti e ascoltati. Questi aspetti la fiction Un professore li ha colti e rappresentati con struggente dolcezza con la splendida interpretazione di Alessandro Gassman… Ho sentito odore di scarpe da ginnastica e sudore, l’odore inconfondibile di una classe».
Conosco un po’ l’autrice del post, con cui ho condiviso in passato la partecipazione alle attività di un circolo culturale milanese e leggo sempre con interesse i suoi racconti di scuola, molto autentici. Per questo mi ha sorpreso il suo giudizio così positivo, pieno di entusiasmo, quel sentire «l’odore inconfondibile di una classe». A prima vista, infatti sottolineo, la fiction di Rai 1, arrivata alla seconda stagione con grande successo di pubblico, ripropone il difetto che condiziona quasi tutte i film e le serie ambientate nella scuola: una clamorosa assenza di verosimiglianza, un totale noncuranza nella ricostruzione dei tempi, dei luoghi, delle fasi e dei contenuti della vita scolastica.
Che scuola è quella in cui il nostro professore impartisce le sue lezioni di filosofia?
Dove esiste un liceo, classico si immagina, nel centro di Roma e così interclassista nella composizione studentesca?
Per non parlare del corpo docente, con una preside che deve mediare tra i colpi di testa a fin di bene e le regole con un professore di latino che sembra un po’ venire fuori da Amarcord. E poi quelle uscite improvvise, spontanee dall’edificio scolastico per fare lezione in un parco, mentre chiunque abbia insegnato sa che per portare gli studenti fuori dall’aula ha dovuto programmare l’uscita con mesi di anticipo e riempire mille moduli.
Insomma, il sospetto è che ancora una volta la scuola sia solo un pretesto per raccontare altre storie, storie di amori finiti e amori rinati, storie di malavita e riscatto, di vecchie signore che conoscono il valore terapeutico del teatro d’avanguardia. Non mancano i cliché e parecchi luoghi comuni in questa fiction che desta tanto entusiasmo.
Eppure, a ripensarci c’è qualcosa che scompiglia, che spazza via il fastidio dei luoghi comuni; pur in tutta la confusione di ruoli e di rapporti nella descrizione della realtà della scuola, c’è qualcosa di vero, di sincero, qualcosa che ha a che fare con «l’odore inconfondibile di una classe».
Tutto sta nella figura del protagonista e nel suo interprete. Il protagonista è il professore di filosofia Dante Balestra e ha un modo tutto suo di insegnare la filosofia. Lega il pensiero di un filosofo, riassunto in una massima, a un problema, un dilemma, un motivo di angoscia che affligge qualcuno o un gruppo dei suoi studenti. Attualizza la filosofia e rende viva, utile, decisiva nella vita quotidiana, concreta proprio quella disciplina che facilmente può apparire astratta, fuori dal tempo e dal mondo.
Mi sono ricordato, vedendo la fiction, di un dibattito televisivo di tanti anni fa tra filosofi, sul tema del valore della filosofia nella società contemporanea. Uno di loro – francamente non ricordo più chi fosse, ricordo che ebbe i complimenti di Lucio Coletti – disse che per iniziare un corso di filosofia in una scuola media superiore un bravo insegnante dovrebbe semplicemente rivolgere a uno studente una domanda: Giulia o Paolo, quando tu dici «questo non è giusto» perché lo dici?, ecco a questo serve la filosofia. Dante Balestra fa più o meno questo, mostra come il pensiero filosofico possa servire a dare una risposta a ciò che è venuto a turbare la vita quotidiana.
La confusione con cui viene rappresentata questa particolare pedagogia del professore, prescindendo dai programmi scolastici (nella stessa classe si utilizza Epicuro, Pascal o Nietzche che al liceo si affrontano in anni diversi) non disturba più molto. Anche il fatto che la trattazione del complesso tema si svolga all’aperto, in un bel parco, sempre con il sole e una temperatura mite, mentre i mesi scolastici prevalentemente quelli invernali, insomma la smaccata inverosimiglianza delle situazioni scompare di fronte all’originalità della soluzione drammaturgica.
Poi c’è l’interprete, l’attore che deve dare credibilità a un personaggio così poco credibile. E per fare questo deve essere davvero bravo, aver quel carisma, quel tocco di divismo che si impone sulla incongruenza del racconto e sulle ambientazioni strampalate. Alessandro Gassman lo è. Diciamo la verità, attorno a lui è rimasto a lungo il sospetto che colpisce i figli d’arte, l’immagine del figlio di…, di Vittorio Gassman, cosa non facile. Un sospetto motivato dall’imbarazzante esordio nell’affresco familiare, Di padre in figlio, un pasticcio di cui fu interprete e coregista insieme al padre nel lontano 1982 quando Alessandro aveva solo 17 anni. Sospetto ampiamente fugato da una successiva serie di prove attoriali di grande qualità.
Ne ricordo due come esempio: Le stagioni del cuore del 2004 una delle migliori serie che Mediaset abbia prodotto e, per quanto riguarda il cinema, nel 2014 I nostri ragazzi. Vent’anni dopo quella serie e dieci anni dopo quel film Alessandro Gassman si rivela un magnifico attore in grado di dare sostanza e solidità a un lavoro pieno di insidie, a portare in una storia di scuola «l’odore inconfondibile di una classe».