Luciano Pellicani ad 81 anni ci ha lasciati; e se ne è andato da solo, senza una carezza, senza una mano che stringesse la sua, senza un ultimo bacio; e neppure per il mostro che si è abbattuto sul pianeta. Lui era un fumatore di quelli che si definiscono accaniti e, dunque, la crisi respiratoria se la doveva aspettare.
Pellicani nasce nel 1939 a Terlizzi in terra di Bari, la stessa dei suoi genitori. Lì era nato suo padre Michele e sua madre. Ed era figlio d’arte. Michele Pellicani suo padre, studioso, intellettuale, giornalista e saggista, nel 1943 entra in contatto con il Partito Comunista Italiano non più in clandestinità ed è incaricato di dirigere una delle riviste di quel partito al quale rimane legato fino al 1956, quando lo abbandona per il partito di Giuseppe Saragat; è deputato per il PSDI fino al 1973, con una parentesi nel PSU tra il 1966 e il 1969: l’unica unificazione che i socialisti abbiano conosciuto nella loro lunga storia.
Luciano mostra sin dalla prima età, assieme ad un temperamento affatto facile che ha risentito del tempo della nascita e di un clima familiare difficile, una spiccata tendenza per gli studi e percorre da sè la sua strada: nel 1964 si laurea in scienze politiche all’Università di Roma, con una tesi su Antonio Gramsci. Studia e si convince che «il comunismo non era una buona idea realizzata male. Era proprio un’idea sbagliata» e abbraccia idee socialiste-riformiste. Dopo la laurea si reca in Spagna, dove studia l’opera e il pensiero del sociologo José Ortega y Gasset, per poi proseguire gli studi sociologici in Francia. Torna in Italia, insegna all’Università di Urbino e si avvicina al Partito Socialista Italiano; intrattiene rapporti con gli intellettuali di quel mondo, fra tutti Virgilio Dagnino, economista e pubblicista, oltre che antifascista e giovane redattore della rivista Pietre.
E incontra anche Bettino Craxi, giovane dirigente socialista milanese che ben nasconde le qualità di leader di prima grandezza e viene designato, per la sua apparente fragilità, per guidare il Partito socialista nel Comitato Centrale del luglio 1976 (Roma, albergo Midas) ormai entrato nella storia.
Luciano Pellicani si dedica allo studio del rinnovamento culturale del Partito mentre Craxi, disvelandosi appieno, è impegnato nel suo rinnovamento politico.
Il Partito Socialista Italiano è stretto tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano che ormai cominciano ad intendersela; il suo ruolo politico, smarrito tra partito di lotta e partito di governo, è in forte ritardo rispetto alla socialdemocrazia europea. Anche se non manca qualche audacia, come quella che si era concessa nel 1977 con la Biennale di Venezia guidata da Carlo Ripa di Meana.
Il PSI che eredita Craxi, infatti, è pur sempre quello le cui ascendenze rimandano al lontano 1922, quando espelle Turati e Matteotti, al Fronte popolare del 1948 e alla gestione demartiniana, tra il 1972 e 1976, di sostanziale soggezione se non di subalternità verso il PCI.
Si trattava, in definitiva, di trasformare l’autonomia ideologica in piena autonomia politica e avviare un’operazione di revisione culturale per poter smentire l’assunto berlingueriano che il «modello sovietico non andava cancellato, bastava riformarlo».
E così, con discrezione ma forte dei suoi studi molto noti anche all’estero, Pellicani sostiene Craxi nella marcia verso la modernizzazione del partito passando attraverso la modernizzazione della sua cultura, e lo aiuta a trovare la strada del riformismo.
Del riformismo socialista al quale è dedicata tutta la sua produzione scientifica come efficacemente sintetizzato nella lettera a Virgilio Dagnino del 10.11.1975 nella quale, fra le altre cose afferma: «Giustamente tu dici che il socialismo ha bisogno di una notevole carica utopistica. Io preciso che questa carica utopistica è stata assai funzionale nella fase pionieristica e aurorale del movimento operaio, ma ora rischia di alienare le masse da quelle istituzioni che sono la garanzia dei loro diritti. Con questo non voglio affatto dire che il socialismo debba liberarsi da ogni forma di utopismo, ma semplicemente che deve sostituire all’utopismo chiliastico un utopismo realistico, basato su obbiettivi conseguibili, o comunque non troppo distanti dalle effettive possibilità inerenti allo stato di sviluppo della società.».
Era naturale, dunque, che Craxi, segretario di un PSI in forte mutazione, si avvalesse del suo pensiero per tracciare il nuovo orizzonte politico e culturale del suo partito e decida di pubblicare a sua firma un saggio, in realtà scritto dal trentanovenne Luciano Pellicani, fondamentale per il socialismo contemporaneo; sarà meglio conosciuto poi come Il Vangelo socialista, ripubblicato a quarant’anni di distanza a cura di Giovanni Scirocco (Aragno editore, 2018).
Che non era un saggio su Proudhon come si ritiene, ma del pensatore precursore del socialismo coevo di Marx contiene solo alcune citazioni; affronta di petto la revisione del rapporto pubblico-privato, con il superamento della statolatria, e riscopre lo Stato come mezzo più che come fine, assieme a importanti riferimenti a Bernstain, a Carlo Rosselli, alla svolta socialdemocratica di Bad Godesberg.
Nel frattempo Pellicani continua l’attività di docente presso l’Università LUISS Guido Carli come docente di sociologia politica e di antropologia culturale, pubblica saggi, alcuni dei quali tradotti in varie lingue. Uno di questi, La genesi del capitalismo e le origini della modernità, definito «un classico» dalla rivista statunitense Telos, è considerato un testo fondamentale per la critica ad alcune tesi di Karl Marx e di Max Weber. Nel 1985 assume la direzione di Mondoperaio, la rivista prestigiosa dei socialisti fondata da Pietro Nenni.
Pellicani utilizzando anche quel periodico prosegue nel rinnovamento della cultura diffusa del socialismo italiano per mettere in discussione in radice e senza appello il leninismo e lo stalinismo e ridefinire il rapporto tra democrazia e socialismo, non esitando (con autorevolezza intellettuale) a dissacrare Marx, Gramsci e Togliatti. Infatti, com’era nella sua tradizione, la rivista non combatteva l’uomo ma le sue idee, ma quelle idee le discuteva, e fino in fondo: al punto da invitare i socialisti a disconoscerle e ad espungerle dal loro patrimonio culturale.
Non a caso dalla redazione di Mondoperaio erano passati e tutt’ora collaboravano intelligenze come Pier Paolo Pasolini o Giampiero Mughini; Paolo Sylos Labini, Giorgio Ruffolo, Federico Mancini, Stefano Rodotà, Francesco Forte, Simona Colarizi, Giuliano Amato; e poi Norberto Bobbio, Lucio Colletti, Massimo Salvadori, Luciano Cafagna e Federico Cohen anche come direttori; e molti altri, finanche il comunista Emanuele Macaluso che non sarà né il primo né l’ultimo di quella famiglia.
Alla dissoluzione del partito dopo Mani Pulite, Mondoperaio sospende le pubblicazioni. In un’intervista dopo le inchieste giudiziarie Pellicani dichiarò che, anche se le irregolarità erano presenti in tutti i partiti, non poteva «perdonare al gruppo dirigente socialista di aver affogato nella corruzione le buone idee».
Nel 1998, rifiutandosi di approdare come molti ex socialisti nel rassicurante grembo berlusconiano, s’avvicina ai Socialisti Democratici Italiani (Sdi), dichiarando di voler rimanere nella sinistra, ma sempre lontano da posizioni massimaliste; e così continua fino alla fine. E quando Mondoperaio riprende le pubblicazioni, Pellicani è il naturale direttore.
Nel marzo 2002 nella manifestazione organizzata a Roma dall’Ulivo Luciano Pellicani, il solo socialista presente tra i relatori e in una delle sue rarissime apparizioni in piazza, fu duramente fischiato per aver attaccato nel suo intervento la linea politica dei Girotondi e di Antonio Di Pietro. Eppure, come scrive Luigi Covatta, l’attuale direttore di Mondoperaio, pubblicando oggi il testo integrale, quell’intervento «conteneva considerazioni che ora nell’ambito della sinistra sono di senso comune. Forse non è un caso che da allora piazza San Giovanni sia stata frequentata piuttosto dalle destre che dalla sinistra: e non è un caso che, diciotto anni dopo, la sinistra italiana sia ancora in cerca della sua identità.».
Ha educato al socialismo e alla libertà generazioni di studenti. Uno di essi (il mio concittadino Domenico Lofano) mi ha scritto testualmente: «Un’infinita conoscenza delle cose e capacità di analisi interdisciplinari, accompagnate da immancabili citazioni e divertenti aneddoti. Questo rendeva speciale il professor Pellicani e le sue imperdibili lezioni universitarie. Preciso e schietto com’era, alle sedute d’esame non mancavano curiosi e simpatici episodi nei confronti di chi all’esame non arrivava preparato. Anche questo, lo rendeva uno dei docenti più stimati e ammirati. Non sono l’unico infatti ad averlo inseguito sia durante gli anni universitari, sia dopo, attraverso dibattiti e libri: desideravo sempre la sua opinione su tutto. Ci restano la sua curiosità intellettuale e desiderio di conoscenza, insieme al piacevole e indimenticabile ricordo».
Luciano Pellicani fu un generatore e moltiplicatore di idee.
Al tempo di Instagram, dei centoquaranta caratteri o dei post che svaniscono nella nuvola e quando, invece, il socialismo ne aveva tutt’ora grande necessità, lascia un vuoto, umano e intellettuale, grande.