Malattia, identità e paura della morte nel nuovo romanzo di Bruno Arpaia: Ma tu chi sei

Oscar Buonamano

Bruno Arpaia torna in libreria con un nuovo romanzo, Ma tu chi sei, e riapre il dibattito sulla narrativa contemporanea, confermando la sua capacità di ampliare «la nozione stessa di romanzo».

Il romanzo così come lo abbiamo conosciuto fino a pochi anni fa non esiste più, ovvero ci sono molti scrittori e molte scrittrici che lo propongono anche oggi, ma la sua strada è, ormai, segnata. Perché se è vero che la letteratura serve, tra le altre cose, a farci comprendere meglio il mondo in cui viviamo o quello in cui vorremmo vivere, la natura umana, i sentimenti, la vita e la morte, è vero che il modo di narrare tutto ciò è cambiato e continua a cambiare.

Racconto in prima persona di una storia vera, approfondimento scientifico e spiegazione degli argomenti trattati, riflessione sulla condizione contemporanea dell’uomo, sono gli argomenti che Arpaia tiene insieme con grande maestria e sapienza, facendo restare il lettore attaccato alla storia dalla prima all’ultima pagina.

«E mentre lei a poco a poco, si andava rassegnando all’idea di trasferirsi, io dovevo fare i conti con quella dell’addio a mia madre come l’avevo sempre pensata, dove l’avevo sempre pensata […] Così l’avevo abbracciata e baciata, respirando la sua vecchiaia, il passato che la stava abbandonando, il tempo che si era irrancidito, i miei rimorsi e i miei rancori di figlio».

L’Alzheimer, malattia degenerativa del tessuto cerebrale, che colpisce la madre dell’autore è il filo conduttore del romanzo, la ripetizione ossessive delle domande della madre al figlio lo spartito sul quale Arpaia costruisce la sua narrazione.

«Per la malattia di Alzheimer non esiste una cura, ma soltanto qualche rimedio che cerca di rallentarne la progressione […] Finora, le placche filiformi che si accumulano negli spazi tra le cellule nervose del cervello, frammenti di una proteina chiamata beta-amiloide, erano sempre state considerate la causa della malattia, a partire da un articolo di Sylvain Lasné pubblicato nel 2006 su Nature […] pare di capire che quelle placche siano, non la causa, bensì l’effetto di un processo precedente all’interno dei neuroni, di un’interruzione nel modo in cui le cellule cerebrali si liberano dai rifiuti…»

Alla fine della lettura, al netto delle ferite da curare o da cicatrizzare, inizia un nuovo romanzo, quello che ogni lettore ordisce con sé stesso, sia che abbia un malato di Alzheimer in famiglia sia che non lo abbia.

«Credo che per molti anni, quando ero piccolo, la mia famiglia abbia vissuto grazie allo stipendio da maestra elementare di mia madre. Uno stipendio guadagnato a furia di fatica e sacrifici, conquistandosi l’immissione in ruolo dopo anni e anni passati a insegnare in scuole serali di frazioni sperdute con nomi per me, allora, epici e incollocabili sulla mappa del mondo: la Zabatta, il Flocco. Mi lasciava da qualche zia, partiva nel pomeriggio e le raggiungeva in treno e poi a piedi, a volte camminando per chilometri, nella malinconia delle strade buie e sterrate dell’inverno del Sud Italia negli anni Sessanta. Un’immagine da neorealismo. A pensarci adesso, ancora mi commuovo».

Nel lancinante percorso attraverso la malattia, la sofferenza e la perdita di sé, Arpaia, pur non attardandosi mai sulle vicende del passato, lascia alcuni spazi al ricordo, ai ricordi. Questo passaggio sulla gioventù della madre che si conquista il lavoro di maestra sul campo è uno dei momenti in cui si lascia andare a un romanticismo che per il resto della narrazione resta sempre al di fuori delle vicende.

Attraverso le sofferenze della madre (e del figlio), della difficoltà di avere una vita che scorre via tranquilla, Arpaia ha modo di approfondire due questioni cruciali della contemporaneità: identità e paura della morte.

Sulla morte scrive, «Perché, a parole, son bravi tutti. Specialmente da giovani. Però la morte vera, specie quella che tocca proprio a noi, è un altro paio di maniche. Vero è che oggi neanche la morte è più quella di una volta. “Anni addietro” ha scritto Mempo Giardinelli, uno la riceveva in un letto quasi monacale, con le lenzuola pulite e la famiglia riunita attorno, in attesa che il moribondo dicesse qualche parola che in seguito tutti avrebbero ricordato. Adesso non è più così, ragazzi. Adesso si sta tutti soli, nella penombra di una miserabile saletta di terapia intensiva, con le sonde infilate anche nel culo e la dignità completamente perduta persino in quell’ultimo atto della vita di ciascuno che è la morte”. Ma tutto questo non cambia granché le cose. Dovunque ci aspetti, in qualunque modo ci si presenti davanti, non possiamo fare altro che qualche moina di fronte all’irrimediabile».

E sull’identità, «Nessuna epoca è stata ossessionata e angosciata quanto la nostra dall’identità: personale, etnica, nazionale, linguistica, comunitaria, sessuale, e chi più ne ha più ne metta. “Si cerca l’identità” ha scritto Paolo Flores D’Arcais “come una volta si cercava l’anima gemella: per esorcizzare un vuoto, una paura, una solitudine. Un’assenza” […] Eric Hobsbawm aveva sottolineato che questa parola, identità, si era affermata nella sua accezione attuale solo a partire dai primi anni Settanta del Novecento. Prima, infatti, non compariva nemmeno nei dizionari con il significato che comunemente le attribuiamo. Ormai lo sappiamo: la memoria, come l’identità (personale e collettiva), è magmatica, sfuggente. È una storia piena di finzioni che raccontiamo a noi stessi».

Irrompono, dunque, nella narrazione due questioni che spesso sono tenute insieme, non sempre sullo stesso piano, da antropologi e studiosi dei comportamenti umani che riconducono ogni ragionamento su questi temi, sempre, su un piano strettamente culturale.

Scrive a questo proposito Jan Assmann in La morte come tema culturale, «Le due concezioni della morte, la morte come nemico e la morte come ritorno nel grembo materno, appaiono a nostro modo di pensare in massimo contrasto fra di loro. Nell’un caso ci troviamo dinnanzi alla conferma e alla perpetuazione dell’identità, dell’individualità e della personalità; nell’altro nella dissoluzione di queste categorie. Nell’un caso l’uomo entra nell’immortalità come individuo sociale e morale, insieme a tutti i titoli e alle dignità acquisite in vita, e secondo la misura delle virtù praticate durante l’esistenza; nell’altro caso l’uomo scompare come individuo nel grembo omnicomprensivo e livellante della Grande Madre, e la personalità sviluppatasi durante la vita regredisce alla forma originaria, deindividualizzata, simbiotica della sua preesistenza embrionale».

Bisognerà chiedere proprio ad Arpaia a quale di queste due concezioni avrà fatto riferimento mentre scriveva il libro. Se cioè la morte (e la paura della morte) è perpetuazione dell’identità o la sua dissoluzione.

«Quando mi accompagna nel piccolo giardino prima del cancello della residenza, la luce sembra arrivare torbida, già sconfitta, sui gerani nelle aiole, sul tavolo di plastica bianca, sull’altalena accanto alla porta a vetri dell’ingresso. Lei sta ancora piangendo. Mi chino, notando quanto ormai devo abbassarmi per raggiungerla, e la abbraccio e la bacio di nuovo sui capelli».

Un rovistio per carpire i sentimenti ultimi e profondi e respingere il vortice dei pensieri che sovrasta i pensieri stessi. Come a voler riprendere la vita che sta andando da un’altra parte e provare ad arginare il disordine che, con l’avanzare della malattia, invade e conquista tutto.


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