A pochi giorni dall’inaugurazione della scultura che ricorda a Milano Cristina Trivulzio di Belgiojoso, salutata festosamente come la prima rappresentazione scultorea di una donna (escluse le sante e le madonne) in una città che conta ben 121 statue di uomini, un’altra opera legata al Risorgimento e a un suo personaggio femminile, seppure questa volta di fantasia, è stata innalzata alla presenza di autorità e cittadinanza. Si tratta della Spigolatrice protagonista della lirica antiborbonica di Luigi Mercantini inneggiante la fallita impresa di Carlo Pisacane, a Sapri, in provincia di Salerno.
Sono bastate poche ore per suscitare uno sdegno generalizzato, moltiplicato dalle fotografie che hanno immortalato il momento della scopertura: una figura femminile apertamente sessualizzata, ammiccante, vestita con un abitino leggerissimo, difficilmente riconducibile all’immagine di una contadina del secondo Ottocento che va a recuperare nei campi il grano sfuggito alla mietitura, circondata dagli sguardi ora compiaciuti ora imbarazzati di un gruppo di maschi italici convocati per l’occasione.
Si direbbe, insomma, una ragazza di Milo Manara che in mezzo al mar vede il tre alberi di Corto Maltese. O un’installazione pubblicitaria di Dolce e Gabbana.
Una brutta storia, l’ennesima. Tanto più che, come viene fatto osservare anche per il caso milanese – ma le analogie si fermano qui – per pensare davvero a un mutamento di sguardo è necessario portare in piazza opere realizzate da scultrici, più che oggetti scultorei femminili fatti da uomini, come invece è il caso delle due opere di Bergomi e Stifano.
Se è vero che solo il 5 per cento circa della toponomastica italiana è dedicata a donne, la statuaria fa scendere ulteriormente questa percentuale; solo attraverso la battaglia di movimenti e gruppi, come Toponomastica femminile, è emerso questo dato. E le amministrazioni hanno iniziato a porsi il problema, in Italia come dappertutto (basti pensare all’ambizioso piano di dotazione scultorea di Central Park a New York, oggetto di difficili e lunghe negoziazioni). Però dobbiamo anche domandarci, più profondamente, se una compensazione numerica ma pur sempre interna alle modalità classiche della monumentalizzazione celebrativa otto-novecentesca sia davvero quello che vogliamo, soprattutto in un momento di ridefinizione dei codici urbani quale quello che viviamo, come ci dimostra una stagione di cancel culture che al di là dei suoi limiti e dei suoi eccessi pone un problema che non può e non deve essere eluso.
Discutendo la scelta estetica dell’artista, ma soprattutto la scelta politica operata dai committenti, non si vuole certamente sostenere che la scultura debba essere necessariamente una riproduzione realistica, mimetica o oleografica del personaggio che si vuole rappresentare. Va precisato, perché proprio queste sono le ragioni di autodifesa usate da Stifano.
Il passaggio dalla pittura verista delle contadine chine sul campo alla venere dalle fattezze slanciate, però, appare decisamente troppo brusco, e non rispettoso non solo di un dibattito ormai capillare sul tema della rappresentazione delle donne, ma anche della condizione materiale tutta contemporanea delle lavoratrici agricole precarie, soprattutto al Sud. Esiste certamente una terza via, che tenga conto della specifica natura dell’arte pubblica, e della richiesta sociale sempre più significativa di mettere in dialogo l’estro individuale del singolo con la presenza di un manufatto nello spazio comune, presenza che necessariamente opera in quello spazio comune dei cambiamenti significativi.
In poco tempo sono tante le voci contrarie che si sono già levate nei confronti della Spigolatrice, tutte con ragioni che condivido.
È chiaro che al di là del pessimo risultato e della grottesca figuraccia, troppe cose si sono volute mettere insieme, in modo imparaticcio: la storia patria, un po’ di pinkwashing che va sempre bene (almeno quando riesce), uno spruzzo di marketing territoriale. Quest’ultimo soprattutto.
Eh sì, perché quello che conta sono i turisti, la storia è posta al servizio di una narrazione che va attualizzata e piegata, se poi c’è di mezzo la letteratura, meglio ancora. La Spigolatrice, insomma, sta a Sapri come la Sirenetta a Copenhagen. E non importa da quale parte della storia si trovasse, se coi buoni o coi cattivi, con gli indiani o i cow boys: questi sono dettagli, come dimostra la memoria di segno opposto che a soli 200 chilometri da Sapri, a Pontelandolfo, viene coltivata con l’immagine della piccola Angelina Romano, falsa vittima di un eccidio falso da parte savoiarda ma altrettanto capace di concentrare identità cittadina, di creare interesse e soprattutto di movimentare presenze.
L’eroe locale, o l’eroina, va sempre bene, perché crea un centro, permette l’elaborazione di un passato glorioso, eleva lo status della città, garantisce un pedigree. E consente alle pizzerie e ai bed & breakfast di trovare un nome riconoscibile.
Rileggere la poesia, poi, non farebbe male. Si scoprirebbe che in tutta Sapri nessuno si mosse quel giorno del 1857 per sostenere l’impresa dei trecento, e che la spigolatrice fu l’unica testimone disposta a una pietà verso i compagni di Pisacane. Insomma, più un episodio da tenere nascosto che da esibire.
Le logiche che prevalgono sono ormai sempre quelle degli attrattori turistici, della gentrificazione dei luoghi e delle città, della costruzione del personaggio-simbolo.
Bisognerà guardare bene che non sia questo il prezzo per vedere diffondersi eroine di bronzo nelle piazze e nelle strade. Non sarebbe un guadagno.