Non neghiamolo. Molti tra noi, vedendoci combattere la pandemia da SARS-CoV-2 con strumenti non molto diversi da quelli usati cento anni fa contro la spagnola o da quelli usati addirittura nel medioevo (la quarantena, l’isolamento) si sono chiesti che scienza è mai la medicina.
Non stiamo accusando i medici e i virologi, ci mancherebbe. Ma certo ci sembra che il tasso di precisione raggiunto dalla biomedicina non sia propriamente quello delle cosiddette «scienze esatte». E quindi ci chiediamo che razza di scienza sia mai quella medica.
Lungi da noi dare una risposta minimamente esaustiva alla domanda. Ci tenteremo, comunque, alla fine di questo articolo, ben sapendo di tutti i limiti delle nostre argomentazioni. Forse, però, può aiutarci percorre sia pure a volo d’uccello la storia dell’idea di medicina.
Ora, quando chiedi loro chi sia il fondatore della medicina, la scienza che studia le malattie dell’uomo, la loro cura e la loro prevenzione, i medici, almeno qui in Occidente, non hanno dubbi e all’unisono indicano Ippocrate, l’uomo che dall’isola greca di Cos, nel lontano V secolo avanti Cristo, ha sottratto l’arte di curare alle pratiche magiche per consegnarla al pensiero razionale.
Quando chiedi loro dove e quando siano state fondate l’anatomia e la fisiologia moderne e lo studio sistematico del corpo umano, gli storici della medicina indicano Alessandria d’Egitto e il III secolo prima di Cristo. E quando chiedi loro chi abbia avuto più influenza sullo sviluppo in Europa della loro disciplina e chi sia riuscito per primo a riunificare in un unico sapere, il sapere del medico, la genialità clinica e la conoscenza anatomofisiologica, ancora una volta risponderanno senza esitazioni: Galeno di Pergamo, vissuto nel II secolo dopo Cristo.
Quando, infine, chiedi agli storici della scienza la data e il luogo cui attribuire il virtuale inizio della medicina scientifica, beh (quasi) nessuno ha il minimo dubbio: e (quasi) tutti ti rimandano a Padova e ai primi anni del ’600, dove studia l’inglese William Harvey che successivamente chiarisce il modo in cui il sangue circola nell’uomo e negli animali superiori. Scoperta che Harvey rende di pubblico dominio nel 1628, con la sua Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus.
Insomma, quando è nata la scienza medica: a Cos, ad Alessandria, nella Roma imperiale o nella Padova d’inizio ’600, dove bazzica tal Galileo Galilei? Spesso questa nostra domanda ottiene una pluralità di risposte tra medici e scienziati: c’è chi risponde «a Cos», chi «ad Alessandria», chi «nella Roma imperiale» e c’è, infine, chi risponde «a Padova». L’anatomia scientifica è iscritta all’anagrafe della città veneta, sostiene lo storico Giorgio Cosmacini.
La diversità delle risposte che otteniamo non è di poco conto. Non solo perché pone un importante problema storico. Ma anche perché dimostra che, anche tra gli uomini che le praticano, c’è ancora oggi una certa confusione intorno al significato epistemologico da attribuire alla parola scienza e alla parola medicina. In realtà nessuno ha completamente torto.
Ippocrate è stato uomo dai grandi meriti. Perché ha fondato una scuola medica che non solo aveva un approccio razionale ai problemi della cura del corpo (e della mente), ma anche perché sperimentava e, quindi, dava un’importanza notevole ai fatti, oltre che alle teorie. Qualche secolo dopo, in quella culla del pensiero e del metodo razionale (anzi, propriamente scientifico) che è stata Alessandria d’Egitto a cavallo del II secolo a. C., uomini come Erofilo ed Erisistrato hanno dissezionato cadaveri ed effettuato osservazioni anatomo-fisiologiche addirittura con approccio quantitativo. Nel II secolo d. C., Galeno ha attraversato in lungo e in largo l’impero romano portando a una sintesi sublime la cultura clinica della scuola ippocratica e il sapere anatomico-fisiologico della scuola alessandrina. Tutti hanno dato un contributo decisivo alla conoscenza del corpo e alla cura dell’uomo. Nessuno ha proposto teorie e realizzato pratiche che oggi riconosceremmo come «scienza moderna» prima di Harvey.
Come mai, dunque, dopo Ippocrate sono dovuti passare venti secoli senza che medici esperti e dotti facessero quello che oggi verrebbe in mente a un qualsiasi studente del primo anno di medicina: osservare che il sangue fluisce da entrambi i ventricoli cardiaci in una sola direzione; verificare che in un uomo ogni ventricolo ha una capacità di 2 once e pulsa 72 volte in un minuto; calcolare che in un’ora ciascuno dei due ventricoli processa e manda in giro per il corpo 2 x 72 x 60 = 8640 once di sangue, equivalente al peso di un uomo adulto; dedurre che ci deve essere un sistema circolare che dalla periferia del corpo riporta al cuore il sangue che il muscolo cardiaco invia dai ventricoli verso la periferia; giungere, come fa William Harvey, a una teoria, appunto, scientifica della circolazione: il cuore funziona come una pompa idraulica e «le arterie costituiscono i vasi destinati a portare il sangue che parte dal cuore; mentre le vene rappresentano i vasi destinati a portare il sangue che ritorna al cuore […] Il sangue si muove dunque compiendo un circolo: dal centro alla periferia e dalla periferia di nuovo al centro»?
Rispondere a queste domande significa, in buona sostanza, dire cos’è la scienza e cos’è la medicina. L’impresa non è facile. Ma vale la pena tentare.
Cominciamo da Ippocrate. Ancora oggi i medici (occidentali) riconoscono come loro (saggio) padre l’uomo che, a Cos nella Grecia del V secolo avanti Cristo, riuscì a sottrarre la pratica della medicina alla magia per restituirla alla ragione. Scoprendo il valore dell’osservazione e dell’esperimento. Definendo, tra l’altro, una pratica (e una teoria) clinica che proprio il ’600 riscopre. Ma allora perché la medicina scientifica nasce, come sostiene lo storico Mirko Grmek, solo nel XVII secolo? E perché non a Cos, ma a Padova, nella stessa città e nel medesimo periodo dove, all’inizio del ’600, Galileo va proclamando il suo Sidereus Nuncius e inaugurando la nuova fisica?
Il metodo sperimentale, come ricorda Grmek, è lo strumento intellettuale più potente per indagare i fenomeni naturali. E se uno sfoglia i sessanta trattati che compongono la Collezione ippocratica, ovvero il pensiero del Maestro e dei suoi più immediati discepoli, si accorge che Ippocrate fa leva proprio sull’osservazione e sull’esperimento, oltre che sul ragionamento, per riscattare dalla magia e dalla religione la pratica medica e renderla una tecnica completamente laica. Dove la malattia, le sue cause e le sue cure, non hanno nulla di soprannaturale, ma sono tutti fenomeni naturali che è possibile, in linea di principio, spiegare.
Per spiegare, però, non basta la sola ragione. Non basta darsi un principio di spiegazione a priori e da questo dedurre, con la potenza della logica, l’intero sistema teorico della nuova medicina: il razionalismo astratto non riesce a cogliere la complessità dei fenomeni naturali. Ma neppure è sufficiente inanellare in modo acritico una serie sempre più ampia di osservazioni: l’empirismo ingenuo, sostiene Ippocrate in polemica coi medici cnidii, non porta davvero lontano.
La spiegazione dei fenomeni naturali che riguardano l’uomo e la sua salute va ricercata raccogliendo, in modo non ingenuo, i fatti. E organizzandoli, in modo critico, in una teoria. La raccolta meticolosa e non ingenua, sperimentale, delle osservazioni consente alla scuola di Ippocrate di mettere a punto tecniche, come quella della trapanazione, e macchine, come quelle chirurgiche, che hanno un’interessante ricaduta non solo sul piano del metodo sperimentale di ricerca, ma anche sul piano strettamente clinico.
E l’organizzazione, critica, di queste osservazioni porta a una spiegazione teorica della patologia, come alterazione importante dell’equilibrio omeostatico, che Ippocrate chiama isonomia, del corpo. I fattori di squilibrio sono sia esterni (l’ambiente), che interni (il regime alimentare). Anche questo approccio teorico ha una precisa ricaduta sulla pratica clinica. Il medico á la Ippocrate, cura non solo e non tanto la malattia, quanto il malato. Aiutandolo a riconquistare l’equilibrio perduto.
La teoria degli umori elaborata dalla scuola ippocratica si rivelerà, ma solo dopo due millenni, errata. Però l’approccio clinico olistico (ma non mistico), che tiene conto della specificità dell’uomo ammalato, ha ancora qualcosa da insegnare alla medicina dei nostri giorni.
Teoria ed osservazione, dunque. Non sono forse questi i fondamenti della moderna scienza e, dunque, della moderna medicina scientifica? Non è dunque Ippocrate così «affine, nel suo metodo se non nei particolari della sua applicazione, a ciò che è oggi la medicina scientifica», come afferma lo storico ed epistemologo André Pichot, da poter essere considerato, a giusto titolo, il suo fondatore?
I meriti di Ippocrate non possono certo essere disconosciuti. Ma il suo metodo, fa notare Grmek, non è ancora quello scientifico. Perché è, certo, un metodo fondato sulla sperimentazione. Un metodo critico, che va oltre il «brancolamento della sperimentazione ingenua». E tuttavia, quella di Ippocrate è una sperimentazione, analogica, che si ferma allo stadio qualitativo (quello dell’analogia). La sua scuola effettua osservazioni attente e critiche dei fenomeni. Di più, ne fa un’analisi comparativa rispetto a modelli teorici che, per analogie tra l’interno del corpo dei viventi e certi fenomeni naturali esterni, consente di indagare non più il visibile ma, per la prima volta, l’invisibile. Come succede, per esempio, quando Ippocrate studia l’embrione, paragonandolo a una miscela di due sementi, il maschile e il femminile, dove chi vince, per forza o per abbondanza, determina il sesso.
Ma l’osservazione, critica, la sperimentazione, acuta, e la comparazione analogica con dei modelli teorici tratti dal mondo macroscopico, proprie di Ippocrate, hanno almeno tre difetti che rendono pre-scientifico il suo metodo. Le osservazioni non prendono in considerazioni le relazioni quantitative, la sperimentazione non è sistematica e l’organizzazione dei dati in una teoria compiuta non procede secondo quella logica ipotetico-deduttiva che si affermerà definitivamente, ma non senza resistenze, con Galileo.
La sperimentazione con metodo quantitativo e persino la logica ipotetico-deduttiva in campo medico verranno usate, in realtà, già ad Alessandria in epoca ellenistica. Questo approccio porta due medici, Erofilo ed Erasistrato, o al metodo scientifico e dunque a una medicina scientifica (come sostiene Lucio Russo) o alle soglie del metodo scientifico, come sostiene Mirko Grmek (anche gli storici autorevoli possono avere idee diverse).
Insomma, Ippocrate non è il fondatore della medicina scientifica. E ad Alessandria, come sostiene Grmek) non nasce ancora una scienza moderna. Perché quello che manca non solo a Ippocrate, ma anche a Erofilo ed Erasistrato (e mancherà poi a Galeno) è la capacità sistematica di applicare il metodo sperimentale quantitativo e la logica ipotetico-deduttiva. Mancanza che secondo Lucio Russo ad Alessandria è stata invece raggiunta. Ma non è di questa enorme questione storica che vogliamo parlare, quanto del fatto che quella sistematicità che sola consente alla nuova scienza di Galileo e di Harvey di effettuare un potente salto di qualità e di riscuotere successi pratici rapidi ed enormi.
Lo sviluppo della nuova medicina a partire dal XVII secolo non sarà esente da errori, schematismi e ingenuità. Come quando, aderendo all’approccio meccanicista, i medici cercheranno di ridurre a una macchina, sia pur complicata, l’organismo, complesso, dei viventi. E tuttavia il suo metodo e qualche nuova frattura epistemologica (la rivoluzione darwiniana, la definizione della teoria cellulare nel XIX secolo, l’avvento della biologia molecolare nel XX secolo) le assicureranno un successo senza precedenti.
La lezione di William Harvey ha un grandissimo interesse storico. Ed epistemologico. Ma ha anche una straordinaria attualità. Ha, infatti, qualcosa da dirci in merito alle obiezioni e alle rivendicazioni sollevate, a livello teorico, da filosofi metodologicamente anarchici (come Paul Feyerabend) e a livello pratico, dalle medicine, cosiddette, alternative.
Dopo la svolta di Darwin che ha permesso di inserire la medicina (e le malattie infettive) nella storia naturale, l’ultimo cambio di passo è stato quello tecnologico (le macchine che oggi troviamo negli ospedali)
Ecco, dunque, cos’è la medicina scientifica: sperimentazione e teoria, pensiero ipotetico deduttivo e metodo quantitativo, integrazione con la biologia evoluzionistica di Darwin, tecnologia sempre più sofisticata.
Perché, dunque, ci sembra meno esatta come scienza della fisica o della chimica?
Il motivo, probabilmente, è che si occupa di sistemi molto più complessi. Sistemi al plurale: la medicina si occupa di sistemi complessi (gli umani) e della loro relazione con altri sistemi complessi (l’ambiente). Dunque è una scienza molto più difficile. E se vogliamo che la prossima pandemia non sia combattuta soprattutto con strumenti che si usavano anche ai tempi di Harvey c’è una sola possibilità: aumentare la ricerca. La ricerca sul corpo umano, la ricerca sull’ambiente e la ricerca sul rapporto tra gli umani e l’ambiente.
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