Mi chiamo Francesco Totti

C’è una tradizione nella storia del cinema: i film sul calcio quando parlano delle partite sono quasi sempre deludenti, quando parlano dei calciatori vanno molto meglio. Si può, lungo questa linea, andare indietro nel tempo fino all’epoca delle nouvelles vagues, per trovare in quella rinascita del cinema brasiliano, che si chiamò «cinema novo», un gioiello di Pedro de Andrade dedicato a Garrincha alegria do povo. Ma anche più di recente non sono mancati piccoli capolavori: il celeberrimo Maradona di Emir Kusturika o Il mio amico Eric dedicato a Eric Cantona e che, pur un po’ dimenticato, resta uno dei più bei film di Ken Loach.

In questa galleria di opere riuscite non sfigura certamente Mi chiamo Francesco Totti il documentario (?), docufilm (?) ma io direi semplicemente film di Alex Infascelli. Sono due le scelte che hanno consentito al regista di dare una forma originale e coinvolgente a una materia già ampiamente conosciuta, l’autobiografia del calciatore realizzata in collaborazione con Paolo Condò.

La prima è quella, singolare e rischiosa, di affidare alla voce fuori campo dello stesso Totti il commento delle immagini della sua vita sportiva e non. Totti, come è noto, non è quel che un tempo si chiamava un fine dicitore, il suo accento è pesantemente romanesco, la sintassi non molto articolata, i concetti semplici, la visione del mondo un po’ manichea. Eppure la sua prestazione in questo ruolo inedito è emozionante: già le prime battute, che illustrano i filmini superotto delle vacanze al mare della famiglia, rivelano un tratto di sincerità, un’atmosfera di autenticità.

Francesco non si limita a commentare: a volte richiede il replay o un rewind per sottolineare un concetto, propone un montaggio parallelo di grande raffinatezza per analizzare le sue giocate rimaste le stesse dai campetti di periferia all’Olimpico, elenca in una lunga sequenza tutte le brutte figure, dalle più note come lo sputo agli europei 2004 a quelle più nascoste e imbarazzanti come lo spintone al fido preparatore e grande amico Vito.

La seconda scelta felice del film è rappresentata dalle immagini, dalla loro varietà e suggestione. Immagini private, di vita in famiglia e persino della sala operatoria in cui si esegue il famoso intervento del 2006, partitelle delle squadre giovanili della Fortitudo o della Lodigiani, ma anche immagini notissime delle azioni della Roma o della nazionale colte da punti di vista inediti, ravvicinati o laterali, immagini raccapriccianti delle violente contestazioni (Totti ha conosciuto anche queste) o degli eccessi di entusiasmo dei tifosi. Anche in un ambito così risaputo, déja vu, nulla è scontato in questo film: persino le immagini di Roma con i tramonti sul Gianicolo, la magia delle piazze e i degregoriani palazzi in costruzione delle periferie hanno un significato preciso.

Se dovessi avanzare una piccola riserva sulla struttura del lavoro di Infascelli, la troverei nella perdita di equilibrio che si manifesta nel momento della crisi del calciatore. Le ultime due stagioni, il contrasto con Luciano Spalletti che da fratello maggiore della prima fase si trasforma misteriosamente in aguzzino, hanno forse troppo spazio, imprimendo al racconto toni drammatici, un po’ cupi che non corrispondono a una storia di vita tutto sommato felice come quella di Totti. Diciamo, per giocare con il titolo di un classico cinematografico, che nel film di Infascelli l’addio è un po’ troppo lungo.

Ma non manca di riacquistare un suo senso nel finale. Inutile nasconderlo: l’ultima partita, l’ingresso in campo contro il Genoa in quel pomeriggio del 28 maggio del 2017 è da pelle d’oca, da brividi di commozione, con il commento musicale affidato a Baglioni e soprattutto con gli innumerevoli primi piani di tifosi in lacrime. Ragazze, signore, bambini, giovani, uomini maturi tutti affranti dallo stesso dolore. E qui, in questa esasperazione, in questo eccesso sentimentale, che il film registra e fa suo, c’è il vero tema del lavoro di Infascelli, la risposta all’interrogativo a cui non sarebbe giusto sfuggire. Qual è la vera natura, l’origine del mito di Francesco Totti? Perché è tanto potente, così appassionante?

So che potrò attirarmi le ire di molti proponendo questa analisi, ma non credo se ne possa fare a meno. Totti non è un calciatore che ha vinto molto. Uno scudetto in una squadra fortissima, un mondiale vissuto più da comprimario che da protagonista, a causa di un grave incidente che ne aveva messo in dubbio la partecipazione. Certo c’è la fedeltà assoluta a una maglia, ma questo non lo rende diverso da molti altri, perché non è affatto vero che gli uomini-bandiera appartengono solo a un passato lontano, come vuole un luogo comune.

Che cosa ha, dunque di diverso, di più, Totti rispetto a Maldini che ha vinto moltissimo, sempre con la stessa maglia? rispetto a Franco Baresi o Alessandro Del Piero, vittoriosissimi e capaci di un sacrificio ancor più grande per la loro squadra, che hanno seguito anche nell’anno della retrocessione in B? Ecco, il film di Infascelli finalmente lo spiega: Totti non è il simbolo di una squadra, la Roma, ma di una città, Roma.

C’è una scena del film che chiarisce bene questa dimensione. Quando alla fine del campionato 2005, disastroso per i giallorossi, le proposte del Real diventano difficili da rifiutare e persino Ilary è propensa al trasferimento a Madrid, Francesco non si sente di tradire la città che lo cresciuto. Un giro per le vie e le piazze di Roma, tra i suoi colori e i suoi rumori, spinge Totti simbolicamente verso una decisione meno conveniente ma più giusta.

In questo particolare legame non c’è confronto con altri calciatori della sua generazione, che furono simboli di una squadra, dei suoi colori ma non di una città. L’unico paragone è con Gigi Riva, anch’egli divenuto simbolo di una terra, di un’intera regione ma in un’epoca in cui l’esposizione mediatica di questi simboli era molto più ridotta.

Questo discorso chiaro ed esauriente fatto attraverso immagini molto suggestive rende il film di Infascelli un’opera di notevole spessore culturale. Chissà quale sarebbe stato il suo impatto sul pubblico se le nuove restrizioni non lo avessero bloccato poco dopo il successo alla festa del cinema di Roma e l’immediata uscita nelle sale con ottimi risultati. In ogni caso un ringraziamento va a Sky che lo ha subito inserito sui suoi canali di cinema. E visto che siamo in tema, mi permetto, sempre restando in area Sky e tra colori giallorossi, una segnalazione: chi ama questo tipo di proposta non si perda il documentario di David Rossi, Il gioco del barone, che ripercorre la vita di Niels Liedholm attraverso i ricordi del figlio, un altro gioiellino nato dal connubio felice tra cinema e storie di calcio.

Related posts

Il Berlinguer di Andrea Segre senza retorica e santificazioni. Umano, serio e popolare

La Russia di Limonov: monotona e violenta

Alain Delon, la costruzione del mito