Misterium tremendum: il male nell’opera di Nicola Lagioia

L'università degli Studi Gabriele D'Annunzio, Chieti-Pescara ha conferito il Diploma d'Onore a Nicola Lagioia. 22 giugno 2024 Museo Michetti, Francavilla al Mare. Foto di Alessandro Battista

Nicola Lagioia ha praticato nella sua carriera molti generi romanzeschi, dal romanzo di formazione più tradizionale a quello in chiave post-moderna fino al non fiction novel. La questione centrale nelle sue opere è sempre il problema del male, un male con la m minuscola, che rimanda alla dimensione privata, e con la m maiuscola, derivato dalla dimensione sociale, pubblica, collettiva – al limite metafisica. I suoi romanzi sono pieni di male su grande e piccola scala, e questo accade in quasi tutta la grande letteratura, ma nello specifico qui c’è sempre un momento in cui nel tessuto della quotidianità qualcosa di enorme, di inspiegabile e tuttavia inaggirabile, esplode. Mettendo tutti, soprattutto chi credeva di aver pianificato ogni cosa, davanti a uno scacco irrimediabile.

Ci sono sempre personaggi giovani nei suoi romanzi, giovani uomini e donne minacciati da qualcosa che all’inizio è indefinito, che si muove di pari passo alla loro infanzia e adolescenza; possono essere vittime o carnefici, più spesso entrambe le cose, ma certamente sono in trappola, da sempre e per sempre. Vivono un mondo, che poi è quello dei nati tra gli anni ’70 e ’80, apparentemente pieno di benessere, privo dei conflitti (ma anche delle aspirazioni) che contraddistinguevano le generazioni precedenti. Sono venuti dopo, sono figli del post: quasi sempre, come in Riportando tutto a casa, La ferocia, La città dei vivi, Occidente per principianti, sono figli di persone molto benestanti che si sono fatte da sole tra l’onda lunga del miracolo economico e gli anni Ottanta. Ma in qualche modo, come è logico che sia (altrimenti non ci sarebbe romanzo), questo benessere materiale non solo non porta alcun benessere psichico, ma anzi contribuisce a demolirlo.

C’è infatti sempre qualcosa che non va. Questi figli non hanno niente a che spartire con l’eredità dei padri. Possono far finta di seguire le loro orme, oppure possono opporvisi, ma quasi sempre l’opposizione è velleitaria, da subito destinata allo scacco. In alternativa, per riuscire dev’essere distruttiva in modo totale. Si pensi, in La ferocia, al personaggio di Michele che per far entrare un po’ d’aria nell’asfittico sistema familiare (un sistema in cui il padre non esita a usare l’omicidio della figlia Clara per ricattare alcuni notabili della città e salvare la propria azienda) deve consegnare il proprio padre alla giustizia, distruggendo il patrimonio di famiglia e probabilmente anche sé stesso. Lo stesso dicasi in La città dei vivi, che ricostruisce il delitto Varani: Manuel Foffo e Marco Prato, i colpevoli di un assassinio efferato e del tutto senza motivo, non sono i mostri del Circeo, non recano nessun progetto superomistico né alcuna stortura ideologica evidente, non nutrono chissà quali progetti criminosi; sono due ragazzi smarriti, che a un certo punto non sanno cosa fare e uccidono un semisconosciuto solo per vedere l’effetto che fa. Ma cosa c’è intorno a loro?

Lagioia, è uno scrittore che potremmo definire neobarocco nella sintassi, nell’accavallarsi degli aggettivi, in un certo gusto per le tinte molto cupe, e questo gli permette in tutti i suoi romanzi di gestire sapientemente i passaggi tra primo piano e sfondo, che poi tanto sfondo non è. Lo sfondo è sempre una metropoli: Roma o Bari; la Roma del presente e la Bari dagli anni ’80 ad oggi. Queste metropoli non sono mai solo sé stesse, ma sono sempre colte in un momento di passaggio: un momento che può infondere senso di ripiegamento o entusiasmo, ma a che fare con una spinta, con una velleità, con un brulichio disordinato, con un ammassarsi di desideri e frustrazioni. Le due città sono contenitori enormi di classi sociali che tendono sempre più ad amalgamarsi, di mondi che si incrociano e che si incontrano superando barriere che hanno resistito per millenni: borghesia e malavita, spacciatori e avvocati, palazzinari e medici che spesso si incrociano allo stesso tavolo di una cena del Rotary.

E in tutto questo, un senso enorme di avvitamento su sé stessi in un disperato quanto fallimentare tentativo di costruire o mantenere una propria identità. Nei romanzi di Lagioia le uniche identità granitiche sono quelle fittizie, di chi ha deciso – come i padri protagonisti di La ferocia, La città dei vivi, Riportando tutto a casa – di rimuovere qualsiasi tentativo di comprendere sé stessi e il mondo. Le macchine per fare i soldi, i palazzinari, i rappresentanti, gli avvocati, i ristoratori sono coloro che inalberano davanti al mondo una sicurezza che sfiora l’assurdo: basti pensare all’episodio del padre di Manuel Foffo che va da Bruno Vespa a cinque giorni dall’omicidio Varani a raccontare, a suo modo in perfetta buona fede, che suo figlio è un ragazzo perbene, educato, autodidatta, intelligente più della media. Questi padri non capiscono niente, e del niente che è sinonimo del vuoto si nutrono le grandi tragedie che vengono raccontate in queste pagine. Che sono poi tragedie dell’implosione in sé stessi. Ci sono tragedie del trovarsi in un momento a dover scontare colpe – e soprattutto sensi di colpa – non propri, ma di un intero sistema familiare e collettivo. In un certo senso, potremmo dire che quelle di Lagioia sono anche tragedie greche su piccolissima scala: uguale è il senso della porosità tra individuale e collettivo, lo scontrarsi della legge arcaica del clan con quella della giustizia pubblica; uguale l’idea che le colpe dei padri continuino a perseguitare i figli, soprattutto quando si tratta di colpe non pensate, non riconosciute, rimosse.

C’è un refrain che attraversa tutto Occidente per principianti, ed è che l’inferno esiste, ma è vuoto. Ora, sul vuoto negli ultimi anni si sono sparsi fiumi di inchiostro dal punto di vista sociologico, psicologico, psicoanalitico etc. Quel che qui mi interessa notare è che il male (ovvero l’inferno) per Lagioia coincide in buona parte col vuoto. Niente di troppo spettacolare, niente malvagità titaniche, il male è piuttosto l’assenza di qualcosa. Ma cosa? In una delle scene più icastiche di tutta la produzione di Lagioia, viene descritta la normalissima porta che i carabinieri si trovano davanti a casa di Manuel Foffo. Una porta di un appartamento in un grande condominio di periferia come ce ne sono migliaia in tutta Italia. Ma cosa c’è dietro questa porta? C’è un vuoto. Ci sono due ragazzi che, pur conducendo vite del tutto normali – con disagi normali, con dei normali fallimenti alle spalle – un giorno decidono di scomparire dai radar (la madre di uno dei due abita al piano di sotto, la famiglia dell’altro vive nella stessa città), drogarsi fino allo sfinimento e poi uccidere. La porta è descritta come custodita in un perenne cono d’ombra, qualcosa di assolutamente normale, ma davanti al quale tutti sentono un senso di inesprimibile disagio, come un ispessimento dell’aria, la manifestazione tangibile di un male che si fatica a definire metafisico (perché a queste cose non ci crediamo più), ma allo stesso tempo non è spiegabile, consueto, ordinario.

Esattamente in questa intercapedine si colloca l’indagine romanzesca di Lagioia. Ed è forse questa la parte più importante della sua opera, anche a livello etico e civile. Un’etica che non è, come troppo spesso oggi si osserva, un tentativo di pedagogia collettiva o di ortopedia delle coscienze. È la presa di coscienza che al fondo di ogni essere umano (anche il più coerente e ordinario) sussiste un’inesplicabile ambivalenza, qualcosa che può in determinate circostanze andare fuori controllo. Un’ambivalenza che, se negata, moltiplica il suo potenziale distruttivo. Ora, una quantità enorme di letteratura poliziesca, thriller e gialla oggi porta sulla scena, in TV, nelle serie disastri, distruzioni, omicidi; ma è molto raro che qualcuno di questi prodotti indaghi sul male in sé, sulle sue origini, sui suoi destini, soprattutto all’interno del sistema-famiglia. C’è invece qualcosa di dostoevskiano nell’interrogarsi di Lagioia su cosa accade a una persona quando entra nel campo di attrazione di qualcosa di malvagio.

Con ogni evidenza, non ci troviamo all’interno di una situazione metafisica: il male è un male umano troppo umano, ma non nel senso che è umana la sua comprensione, bensì che è umana e tuttavia imperscrutabile la sua origine. C’è una domanda, al fondo dell’opera di Lagioia, che trascende il culturale e sociologico, ed è: come si è arrivati a tutto questo? In che senso a un certo punto, partendo da condizioni ordinarie, si può produrre una follia così evidente, un dolore così cieco, una distruzione (propria e altrui) tanto devastanti? Ed ecco il misterium tremendum, che resta senza una risposta definitiva e univoca. Se ogni scrittore sceglie e costruisce la piaga in cui mettere il dito, questa è la piaga che ossessivamente rimbalza da un romanzo all’altro di Lagioia, conducendoci in un cuore di tenebra che – proprio come nell’omonimo libro di Conrad – non è altrove (nei grandi crimini e nei grandi criminali), bensì molto vicino, troppo vicino: al piano di sotto, sul nostro stesso pianerottolo, nella stanza accanto o dentro di noi. E dov’è il bene in tutto questo? Non certo nello pseudo movimento vitalistico dei tanti (apparenti) vincenti. Anche in loro c’è sempre qualcosa di irrimediabilmente deragliato, di ottuso, di distruttivo e miope.

E allora, dove sta il bene in tutto questo? È difficile trovare in questi romanzi uno slancio che sia benefico e non distruttivo; ma assumere la prospettiva radicale del male, fatto per necessità o per mancanza di alternative, permette anche di sondarlo. Sondarlo già sapendo che non c’è alcuna possibilità di venirne a capo. Non è una resa, è la constatazione che siamo anche troppo annegati in un discorso retorico e mediatico che cerca ossessivamente di distinguere tra noi e loro, tra buoni e cattivi, tra brave persone e coloro che in preda a un raptus compiono il male. Il problema è che, come ci mostra Lagioia, i semi del criminale covano in ognuno di noi, soprattutto in chi si sente assolto in anticipo e al riparo da ogni tentazione. Così come ognuno di noi, nelle condizioni e nelle situazioni adeguate, può essere colto da un cosiddetto raptus (che forse invece è la rivelazione di una drammatica e scandalosa esigenza profonda; sarebbe a dire quello che Freud definirebbe un lapsus o un sintomo).

Forse oggi, in una civiltà del post- che vede il tramonto o l’irrisione di qualsiasi seria possibilità di un umanesimo propositivo, l’ultimo scampolo di bene sta nel tentare un umanesimo ex negativo, che è proprio quello che prova a fare Lagioia. Il bene, nei suoi romanzi, sta in chi non chiude gli occhi, in chi si assume le proprie responsabilità, in chi non ha fretta di assolversi, in chi continua a farsi domande, in chi alimenta la possibilità di capire mediante indagini, prove ed errori. Un umanesimo ex negativo perché non tende all’ideale di un essere umano perfetto, mondato da ogni difetto e colpa, ma anzi va alla ricerca di quel che di più oscuro c’è in ognuno di noi per coglierlo un attimo prima che si inabissi, e che davvero sia troppo tardi.

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