Mobilitazione corale per l’Europa

Gianvito Mastroleo

Preso da questioni solo personali avevo accolto tiepidamente l’invito dell’ottimo direttore Oscar Buonamano a esprimere un’opinione a proposito di Europa e di conseguenza sull’incontro romano del prossimo 15 marzo, scaturito dalla provocazione di Michele Serra attraverso il quotidiano la Repubblica che da qualche parte non viene condiviso.

Ma quando poco fa ho letto nell’articolo di un intellettuale di sinistra, o forse di un «rivoluzionario del nulla», accanto alla solita frecciatina ai riformisti ridurre la questione europea all’affermazione: «no bombe a debito su lavoratori e lavoratrici», ogni dubbio si è volatilizzato.

Occorre una corale mobilitazione perché l’Europa compia il passo sul quale si arrestata da decenni e dunque a Roma sabato, pur impedito ad esserci fisicamente, sarò idealmente presente, con ogni convinzione e condivisione possibile; perché ne ho compreso lo spirito e sono d’accordo sulle finalità più essenziali, direi sulla necessità inderogabile di una grande mobilitazione che deve spingere non verso le bombe ma verso ogni sforzo possibile perché l’Unione compia l’ulteriore e più decisivo passo verso il completamento degli Stati Uniti dell’Europa: e che il compito di spingere verso l’obiettivo tocchi solo ai suoi popoli.

La giravolta trumpiana intorno alle relazioni internazionali del suo Paese e il declassamento della straordinaria solidarietà americana verso l’Occidente, di cui siamo stati beneficiari e che non potremo mai dimenticare, ad una volgare questione del rimborso dei soldi (le famose «caramelle» che Zelensky avrebbe «estorto» a Biden!) e di appropriazione di un po’ di terre rare né più e né meno di come farebbe il più sfrontato degli usurai o, addirittura peggio, alla ritorsione perché il beneficiario non abbia pronunciato il pur dovuto “grazie” (secondo la visione del vice presidente) ha accelerato, rendendola necessaria ed urgente, ogni spinta popolare e azione del governo europeo, prima di quelli nazionali.

Se agli auspicati (davvero da tutti?) Stati Uniti d’Europa non si consente una politica fiscale e un bilancio comune, oltre ad una difesa comune e, dunque, un esercito europeo, in sostituzione (perciò non una duplicazione) degli apparati nazionali, si starebbe parlando d’altro, e non certo di Stati Uniti.

Ma c’è un’altra ragione in più che mi spinge a partecipare alla mobilitazione popolare e ad essere idealmente a Roma: perché riesco ad indossare i panni di un cittadino lituano o estone che viva agli estremi del suo Paese laddove la sua terra è separata dal territorio russo non più che da una rete di simbolico filo spinato: e non da migliaia di chilometri, oltre che da un mare, come capita a noi italiani.

Per quei cittadini, europei come noi, il nemico invasore è dietro la porta di casa e dunque la difesa è molto di più che solo necessaria: è vitale. Invasore sì, perché si possono invocare tutti gli argomenti e i richiami più sofisticati alla Storia di cui son capaci i nostri bravi studiosi, ma su un punto non può esserci dissenso: e cioè che sia stato Putin a invadere l’Ucraina e non Zelensky la Russia.

Poi, per carità, le questioni connesse sono davvero tante, a partire da un rinnovato, forse inedito, protagonismo europeo nella dialettica se non nel confronto/scontro con le super potenze mondiali – e le forze di sinistra presenti nel Parlamento Europeo le hanno poste sul tavolo e ancora lo faranno con la dialettica necessaria e dovuta.

Ma sulla necessità della difesa comune per tutti gli europei non può esserci dissenso: per quei cittadini europei che vivono a contatto di filo spinato con lo straniero e per quelli i cui confini sono più al sicuro, perché bagnati dall’oceano Atlantico. E che scrivere «no bombe su lavoratrici e lavoratori» altro non è che un consapevole inganno.

Non lo meriterebbe chi scrive quella banalità ma a proposito di riformisti mi permetterei ricordare il pensiero che Federico Caffè, poco prima di scomparire, affidò a il Manifesto nel giugno 1982: «Più che essere colpito dagli strali del retoricume […] il riformista avverte con maggiore malinconia le reprimende di chi gli rimprovera l’incapacità di fuoriuscire dal “sistema”. Egli è, tuttavia, troppo abituato alla incomprensione, quali che ne siano le matrici, per poter rinunciare a quella che è la sua vocazione intellettuale. In questa non rientra, per naturale contraddizione, il fatto di dover occuparsi di palingenesi immaginarie».

Ci si vede idealmente a Roma, dunque, e con convinta determinazione: la difesa comune non confligge con il bene supremo della Pace che, non noi che in qualsiasi modo parteciperemo ma coloro che speciosamente resteranno sulle loro comode poltrone mettono in discussione.

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