Nembro, la Spoon River d’Italia

Oscar Buonamano

Edgar Lee Masters inventò Spoon River, nome di fantasia di un paese immaginario, per raccontare di tutti gli abitanti del suo paese reale. Scrisse 243 epitaffi, questo l’espediente utilizzato, in cui ognuno dei protagonisti parlava in prima persona. Una città dei morti in cui gli abitanti si appalesano uno dopo l’altro e raccontano di ciò che erano stati e di ciò che avrebbero potuto essere. Del loro lavoro, dei sogni, di amori e di tradimenti. In quella immaginaria città dei morti, prendeva forma una possibile, nuova e migliore città dei vivi.

Fernanda Pivano, che de l’Antologia di Spoon River fu la prima traduttrice italiana (1943), riportando il pensiero dell’autore l’ha definita «qualcosa di meno della poesia e di più della prosa».

Lee Masters scrive 243 epitaffi, ai quali aggiunge il componimento La collina che inizia con questi versi.

«Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno trapassò in una febbre,
uno fu arso in miniera,
uno fu ucciso in rissa,
uno morì in prigione,
uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina…».

Nembro è un paese a sette chilometri da Bergamo, una comunità di circa 11.000 anime. È il paese in cui è nato lo scrittore e giornalista Gigi Riva che ha raccontato la storia di alcuni abitanti di Nembro morti a causa del flagello denominato Covid-19.

Nembro a differenza di Spoon River non è un nome di fantasia e Riva non ha scritto degli epitaffi, ma ha narrato con la sua voce il senso più profondo e intimo di una comunità: ovvero la vita che pulsava all’interno del paese.

«La piazza del municipio completamente ristrutturata era il cuore pulsante di Nembro. Oltre al comune, vi si affacciano il cine-teatro Modernissimo, le scuole elementari, le poste, la banca. Una meta obbligata per i cittadini […] La spina dorsale di Nembro è una strada lunga e stretta sulla quale si aprono – si aprivano – le attività commerciali…».

Poche ed essenziali parole per descrivere il suo paese, la piazza in cui la città si rappresenta attraverso le principali attività collettive e la strada del commercio. Poi come se sgranasse una coroncina per recitare il rosario racconta la storia di Tullio Carrara, il bibliotecario. Della sua tenacia per ottenere locali più idonei alla lettura. Del suo amore per Dante Alighieri, della sua fede cristiana. Di Giulio Bonomi, il «diverso parere», il falegname che si era costruito una cultura politica da solo, come si usava un tempo. La sua storia è durata 92 anni e corre parallela alla storia della sinistra politica nel nostro Paese. Di Bepi Pezzotta, presidente della casa di riposo, di Bepo Pezzotta, priore della Confraternita del Santissimo Sacramento. Del Roccia, Antonio Ardenghi, terzino della Nembrese e che da solo «ha costruito metà della nuova sede del gruppo al parco Rotondo e ha ristrutturato la chiesa in località Canaletta».

E poi ancora di Ilario, Mariella, Mauro, Cristina, Marino, Sandro, Elio, Pierina, Ivana.

È la storia di una comunità restituita attraverso la vita delle persone che ne costituivano la parte essenziale. Il bibliotecario, il falegname, l’ostetrica, l’impiegata comunale, il proprietario della ferramenta, la volontaria, qui hanno un nome e un cognome. Qui è possibile leggere il contributo che con il loro lavoro hanno apportato all’emancipazione di quella comunità che anche grazie a loro non si è sentita più figlia di un dio minore, ma protagonista di una vicenda meritevole di essere ricordata. È la storia di Nembro, ma è una storia comune a tante piccole realtà, non solo italiane. Una storia che deve continuare e che continuerà anche grazie al ricordo appassionato e colto di un testimone eccelso dei nostri, malandati, tempi.

Nel 1972 Italo Calvino scrive un libro, anche questo come l’Antologia di Spoon River con città immaginarie e definito un poema in prosa, Le città invisibili. Tra queste ci sono cinque città dei morti, Melania, Adelma, Eusapia, Argia e Laudomia.

«Ogni città, come Laudomia, ha al suo fianco un’altra città i cui abitanti si chiamano con gli stessi nomi: è la Laudomia dei morti, il cimitero […] Più la Laudomia dei vivi si affolla e si dilata, più cresce la distesa delle tombe fuori delle mura […] a somiglianza della città dei vivi questa comunica una storia di fatiche, arrabbiature, illusioni, sentimenti; solo che qui tutto è diventato necessario, sottratto al caso, incasellato, messo in ordine. E per sentirsi sicura la Laudomia viva ha bisogno di cercare nella Laudomia dei morti la spiegazione di se stessa, anche a rischio di trovarvi di più o di meno: spiegazioni per più di una Laudomia, per città diverse che potevano essere e non sono state, o ragioni parziali, contraddittorie, delusive».

Le parole di Calvino portano un certo conforto anche a chi non ha fede e aiutano a leggere nell’esempio terreno di chi non c’è più, spiegazioni e ragioni per continuare a credere in un mondo migliore.

«Quattro secoli fa il flagello veniva attribuito al castigo di Dio. Ora, anche nel paese profondamente cattolico, si valutano gli errori dell’uomo. E si guarda con speranza alla scienza», sono le parole con le quali Gigi Riva conclude il suo pensiero. Un invito e insieme un monito.

 

 

 

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