I fatti dei giorni scorsi a Minneapolis e le successive manifestazioni che si sono svolte in tutto il mondo suggeriscono un collegamento, prima d’ora non così evidente, tra le produzioni cinematografiche di Netflix di questi ultimi anni e gli Stati Uniti d’America.
La lunga serie di documentari prodotti, di cui è evidente l’originalità ma non più la portata e il disegno, convergono e fanno emergere una riflessione quasi banale, la decadenza del sogno americano.
Le generazioni nate tra gli anni ’60 e ’70 ricordano certamente A-Team, Miami Vice, Magnum, P.I., Hill Street giorno e notte. Si chiamavano telefilm e sono stati realizzati di nuovo in versione contemporanea senza mai metterne in discussione il simbolismo positivo anche quando non rispecchiavano le nostre idee.
Per non parlare dei film di Robert Redford o dei personaggi incarnati da Barbara Streisand.
Si accettava la stessa piattaforma valoriale occidentale che raccontava di un sogno americano a portata di mano diverso ma vicino al nostro, l’eterno trionfo dei buoni, una giustizia a dimensione umana e la solita netta e rassicurante separazione tra bene e male.
Oggi, guardando le nuove produzioni e in particolare le docuserie, le cose sono cambiate e non è solo una questione di genere tv, serie contro documentari, così come potrebbe apparire.
Netflix si è trasformata in una piattaforma che ci racconta dall’interno, senza diretta, senza cronaca, a freddo, le contraddizioni intollerabili del sogno americano e funziona molto bene nel fare da specchio al Paese, forse meglio del New York Times obbligato alla cronaca e non sempre attento ai risvolti internazionali dei fatti domestici.
La maggior parte dei documentari proposti costituiscono un quadro quasi distopico del Paese.
Hai preso le pillole?, sull’uso dei farmaci a sostegno dello studio scolastico e universitario e più in generale sul clima di competizione estrema tra i giovani.
Confession tapes, sulla fragilità e ossessione del colpevole nel sistema investigativo e giudiziario americano.
XIII emendamento, sul boom delle incarcerazioni afroamericane.
Inside Job, sulla corruzione alla Borsa di Wall Street.
Flint town, sulla devastazione urbana estrema di una cittadina, appunto Flint, non molto distante da Detroit distrutta da una crisi idrica senza precedenti che si sovrappone alla crisi dell’industria automobilistica (General Motor).
Alla conquista del Congresso, sui meccanismi oligarchici di funzionamento delle campagne elettorali americane.
Come salvare il Capitalismo, l’ex segretario al Lavoro di Clinton, Robert Reich parla delle disfunzioni non più tollerabili del capitalismo americano.
Basterebbe questa cornice di contenuti per supportare la tesi della rappresentazione della decadenza del sogno americano, ma c’è dell’altro. Nel mese di maggio e in pieno lockdown è andata in onda la serie sul caso Epstein che è all’inizio è sembrato essere l’ennesimo documentario sulle disfunzioni sociali ed economiche degli Stati Uniti d’America, e invece affronta un tema delicatissimo e di stretta attualità: la progressiva dissoluzione morale e civile delle classi dirigenti americane e l’esercizio di un potere oligarchico che tende a salvaguardare se stessi per restare impuniti.
Se Marx fosse ancora in vita si sentirebbe in dovere di chiamare tutti alla rivoluzione.
Jeffrey Epstein è stato un magnate di New York dalle risorse quasi illimitate, con un tenore di vita assolutamente fuori dal comune. Apparteneva a quel 4/5 % del mondo che oggi sembra essere l’oggetto del desiderio di tutta l’industria globale.
Si scopre, si sapeva ma si faceva finta di niente, che l’origine della sua ricchezza è avvolta nel mistero per usare un eufemismo. La sua stessa vita, le connessioni ad altissimo livello, le amicizie erano e restano avvolte nel mistero più assoluto.
Del resto basta interrogare Wikipedia e, con tutte le prudenze del caso, si capisce che il signore in questione aveva ben più di qualche scheletro ben riposto nell’armadio.
Fin qui una brutta ma ordinaria storia di un truffatore non particolarmente pericoloso se non si scoprisse invece che ha potuto godere di un’assoluta copertura ed è stato per circa venti anni un predatore e trafficante a sfondo sessuale di giovani donne, minorenni e non. Prometteva denaro e carriera per poi manipolarle fino a ridurle, in alcuni casi, in schiavitù sessuale. In Europa diremmo roba da Ancien Régime.
Centinaia di giovani donne usate per perversi scopi personali o per rendere le innumerevoli feste a cui si dedicava, piacevoli agli ospiti illustri per poi, probabilmente, ricattarle. La questione quindi non riguarda solo la gravità del reato, ma l’apparente normalità dell’umanità di cui si circondava che sapeva e non interveniva, che sapeva e considerava tale approccio giustificabile per lo status economico del soggetto.
Jeffrey Epstein muore suicida nell’agosto dello scorso anno in un carcere di New York in circostanze ambigue portandosi nella tomba segreti inconfessabili.
Il documentario mostra la miseria umana di molti dei protagonisti e l’assenza assoluta di codici morali sua e del suo gruppo di amici frequentatori. La fama che si era saputo costruire rende e ha reso sempre difficile discernere il buono dal cattivo, il giusto da ciò che è sbagliato. La fauna umana di cui si circondava mischiava l’alto e il basso, il noto e il poco noto, e allora nel documentario è possibile vedere persone non note alle cronache e nello stesso tempo, l’ex presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton e l’attuale presidente Donald Trump, il nipote della Regina d’Inghilterra, Andrea e, l’immancabile amica tuttofare Ghislaine Maxwell, figlia di un ricco editore inglese morto in circostanze misteriose nel 1991.
A confronto gli Happy Few di Francis Scott Fitzgerald appaiano delle giovani marmotte.
Tutti pronti a negare la vicinanza e l’assiduità di contatti con il magnate divenuto alla fine un appestato, ma solo dopo il coraggio della denuncia di alcune di queste giovani abusate, distrutte da questa vita manipolata.
Uno scandalo internazionale che ha avuto una scarsissima eco in Italia, ma dal significato spaventoso che spiega l’impossibilità di riformare l’attuale forma di capitalismo e il famoso salto di specie antropologico al quale si assiste nella più grande democrazia del mondo.
Si dirà che Netflix, Titan tech americano di nuova generazione digitale, nel cambiare il mondo dei media diventa specchio del tramonto del sogno americano, ma non bisogna trascurare che, contestualmente, è segno della capacità americana di sapersi riscrivere e raccontare costantemente.
Rattrista il fatto che quel Paese generatore di speranza per oltre un secolo sia diventato un Paese produttore di rimpianto, e per questa ragione siamo tutti un po’ più tristi e soli.