In questa esperienza inedita per la nostra generazione ci troviamo a misurarci con una realtà che non avevamo mai sperimentato, il cui portato maggiore è il carico enorme di incertezza che la caratterizza. A fronte dell’incertezza, forse per placarla, si addensano le aspettative le quali a loro volta si concentrano nei confronti dello Stato. È allo Stato che chiediamo risposte alle nostre paure, risorse per colmare i buchi che si sono creati nei nostri portafogli, soluzioni che ci consentano di ripartire con dinamismo e in sicurezza.
Le epidemie non sono una novità, hanno segnato la storia dell’uomo nel corso dei millenni con il loro portato di lutti e di sofferenze. Questa che stiamo ancora vivendo avviene tuttavia in un contesto completamente diverso anche dalla Spagnola, l’ultima tragica pandemia che esplose un secolo fa, sul finire della prima guerra mondiale, e fece decine di milioni di morti.
La prima più visibile differenza sta nei progressi della medicina, della farmacologia e delle tecnologie elettromedicali, che hanno consentito di attenuare le sofferenze e contenere il numero delle vittime, e dalle quali ci aspettiamo nei prossimi mesi un protocollo terapeutico consolidato e un vaccino.
La seconda differenza è nella pervasività della comunicazione e dell’informazione che nei paesi democratici hanno consentito un controllo sociale costante e minuzioso, quasi ossessivo, di ogni passaggio, di ogni scelta, di ogni esito. L’opinione pubblica ha influenzato le scelte governative e basta pensare alla rapida parabola della perniciosa teoria dell’immunità di gregge per capire quanto sia stata rilevante. L’informazione, con i suoi eccessi, le sue ridondanze e le sue deviazioni ha funzionato.
Ma la differenza più potente è nelle aspettative. Nel 1920 si moriva di Spagnola, la malattia faceva il suo corso e il suo esito era, nei limiti della scienza e delle strutture sanitarie di allora, ineluttabile. Oggi tutti legittimamente ci aspettiamo di essere curati, abbiamo conquistato questo diritto importantissimo e di grande civiltà e lo abbiamo interiorizzato. Il primo problema che gli epidemiologi hanno posto è stato infatti il rischio che i posti nelle terapie intensive non fossero in numero adeguato e quindi si corresse il rischio che a qualcuno (o forse a molti) fosse negato il diritto alla cura. La strategia adottata è stata definita sulla base di questo problema, ogni sforzo è stato teso a spalmare i tempi dell’epidemia e ad aumentare i posti nelle terapie intensive per evitare di trovarsi a dover scegliere tra chi curare e chi no.
In qualche caso, nei giorni più cupi, è avvenuto, ma il grande pericolo è stato sostanzialmente scongiurato e questo va riconosciuto ai governanti, agli amministratori e agli scienziati che si sono trovati a gestire questa emergenza inedita. Va dato atto allo Stato di essere stato sostanzialmente capace di garantire l’esercizio di quel diritto fondamentale alla cura che è stato una delle conquiste più alte del ’900.
Ma le aspettative non riguardano solo il diritto alla cura. Negli anni ’20 del secolo scorso nessun imprenditore si aspettava che lo Stato intervenisse per tenere in piedi la sua azienda e nessun lavoratore che lo Stato avrebbe potuto o dovuto dargli di che sopravvivere. Vi furono interventi e aiuti, ma con risorse limitate, limitate ambizioni e limitate aspettative. Oggi invece quelle aspettative sono altissime, quasi totali. Ci aspettiamo che lo Stato colmi i buchi che il virus ha creato nelle casse delle imprese e nelle tasche dei cittadini, che si occupi della gestione dei bambini e degli anziani e della vita delle coppie allontanate dai limiti alla mobilità dovuti alla necessità di contenere la pandemia. Ci aspettiamo che rimetta rapidamente in moto i meccanismi dell’economia e attivi una ripresa che ci faccia recuperare quanto in questi mesi di blocco è andato perduto e ci faccia crescere e uscire dalla palude nella quale siamo rimasti impantanati all’inizio di questo millennio e dalla quale non siamo riusciti mai a uscire.
È una sfida improba. Soddisfare aspettative così alte e così ampie è difficilissimo anche per una classe politica migliore della nostra, per una amministrazione più efficiente, per uno Stato che abbia meno debiti sulle spalle e più risorse da mettere in campo.
E tuttavia fino a questo punto il bilancio non può definirsi negativo. Il diritto alla cura, lo abbiamo detto, tra i tanti errori e le molte contraddizioni è stato sostanzialmente rispettato. Per il sostegno emergenziale alle famiglie e alle imprese la risposta è invece più articolata perché le decisioni sono state abbastanza tempestive e per lo più adeguate mentre la loro implementazione è stata troppo lenta, in parte a causa della complessità del processo normativo (i regolamenti attuativi che in Italia non ci facciamo mancare mai) e in parte per le caratteristiche che conosciamo della nostra amministrazione. Ma lo sforzo è in atto, nei prossimi giorni vedremo se il più grave dei tasselli mancanti, l’erogazione della cassa integrazione, andrà a posto come è stato promesso (dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico).
Ma l’emergenza sanitaria speriamo stia per finire e il paese ha aperto i battenti, siamo alle porte della parte più ardua della sfida, quella sulla quale si concentrano in questa fase le aspettative più ampie: la ripartenza dell’economia, dell’occupazione, della crescita. Non siamo riusciti, in 13 anni, a recuperare il prodotto lordo che l’Italia realizzava nel 2007, prima della grande crisi. Riusciremo questa volta, nel giro di mesi, a dare il segno di una svolta?
La risposta non c’è, anche se le preoccupazioni e le perplessità sono molte, e tuttavia quella che abbiamo davanti è anche una opportunità straordinaria, che potrebbe confermare che dal male può nascere il bene. L’Italia, che all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso aveva raggiunto in termini di reddito procapite la Francia, il Regno Unito e la Germania, da allora è rimasta ferma mentre gli altri andavano avanti. Da uguale che era 25 anni fa, oggi il reddito procapite italiano è sceso ai tre quarti di quello tedesco, francese e inglese e addirittura a metà di quello americano.
Il Covid ci ha bloccato ma la crescita dell’Italia era già ferma. L’opportunità straordinaria arriva dall’Unione Europea, che ci ha già salvato con gli interventi della Bce, e dalla quale arriveranno quasi 100 miliardi di euro, una somma enorme, che potrebbe cambiare l’Italia a condizione che quei soldi non vengano spesi, come già molti chiedono, ma investiti. La differenza tra la prima e la seconda strada è sostanziale: spendendoli miglioriamo per un breve tempo il presente, investendoli miglioriamo il presente e anche il futuro. C’è però anche un’altra differenza sottile, ed è che spendere è facile ed elettoralmente redditizio, investire invece è difficile. Bisogna scegliere, e bene, bisogna essere capaci di fare progetti e di realizzarli.
E qui viene la seconda fonte, possibile, dell’opportunità di cui parliamo. Noi. Noi cittadini. Potremmo avere imparato qualcosa da questa esperienza, per esempio il valore della solidarietà, della serietà, del rispetto, della fiducia. Potremmo. Se così fosse, almeno per la maggioranza di noi, potremmo gestire costruttivamente le nostre aspettative, aspettarci e scegliere una classe dirigente in grado di cogliere questa opportunità, di avere coraggio, di assumersi responsabilità, di non fare solo e sempre campagna elettorale. Di non inondarci di parole ma di progetti, realizzazioni, fatti. Avendo noi la pazienza di non volere tutto e subito e facendo anche noi cittadini la nostra parte, a cominciare da quella di pagare, tutti, le tasse. Perché le aspettative nei confronti dello Stato di chi non le paga non sono inferiori a quelle di chi invece regolarmente le paga.