Non tutti i poveri sono disoccupati

Tendiamo troppo spesso a confondere, anche in buona fede, il fenomeno della disoccupazione con quello della povertà, identificando il disoccupato con il povero. Non è così, o non è più così. È essenziale invece distinguere le due dinamiche, se non altro per promuovere azioni efficaci in grado di contrastarle e ridurle.

Negli ultimi anni sono aumentate nel nostro Paese le persone, spesso in famiglie monoreddito anche numerose, che tecnicamente un lavoro lo hanno, ma che sotto il profilo del reddito restano sostanzialmente povere, percependo paghe molto al di sotto della media.

Si tratta di lavoratori e lavoratrici che molto spesso sono classificati come autonomi, ma che in realtà sono de facto sottoposti alla più rigida delle etero direzioni e gerarchie, peggio del più tayloristico modello organizzativo, non beneficiando né dei vantaggi del lavoro autonomo, né di quelli tipici del lavoro dipendente.

La rivoluzione tecnologica, il lavoro su piattaforme digitali, la frantumazione dei processi del lavoro, datori di lavoro che spesso non si sa neppure chi siano e dove siano e dei quali conosciamo solo l’algoritmo che impartisce direttive, hanno senz’altro favorito l’espansione del lavoro povero, soprattutto nei servizi, anche perché una geografia del lavoro frantumata, spezzettata, dai luoghi e dai tempi incerti, non favorisce l’associazionismo sindacale e dunque la possibilità di negoziare condizioni di lavoro più favorevoli.

Se da un lato, come a me pare, sembra esserci una presa di coscienza generale sull’opportunità di intervenire, dall’altro sorge il dubbio, tipico in tema di politiche del lavoro non da oggi, se debba farlo il legislatore o lasciare che se ne occupino le parti sociali, oppure se il legislatore debba intervenire solo a supporto delle parti sociali stesse.

In sostanza, si tratta di decidere se debba essere una legge a stabilire un salario minimo dignitoso a beneficio dei lavoratori non coperti da contratto collettivo, ovvero se il legislatore debba limitarsi ad approvare un dispositivo che consenta l’estensione erga omnes dei contratti collettivi esistenti, lasciando così ad organizzazioni dei datori di lavoro ed organizzazioni dei lavoratori il potere di stabilire livelli retributivi minimi ed universali.

Di questo abbiamo discusso, nell’ambito del festival Lector in fabula, con i nostri due ospiti Teresa Bellanova e Maurizio Del Conte, in un dibattito che ha suscitato interesse, testimoniato da un pubblico numeroso.Un incontro incentrato sul buon senso e sul realismo, senza pregiudizi ideologici – che non hanno mai portato lontano – e che non ha per principio escluso alcun modello di intervento.

In molto Paesi europei esiste un salario minimo stabilito dalla legge, principalmente in quelli con una meno solida tradizione di contrattazione collettiva (non è il caso dell’Italia), ma va detto anche in altri a più robusta sindacalizzazione, come la Germania.

In altre parole, si è convenuto, a parte sfumature diverse fra i relatori, che ogni soluzione può essere presa in considerazione a condizione che la si guardi bene nei suoi contenuti e nelle sue applicazioni; a condizione cioè che si studino i dati, le ricadute, le possibili controindicazioni ed incoerenze, in un dialogo che coinvolga a pieno titolo le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro. Non è più il tempo di interventi declamatori. È già stato fatto con il Reddito di cittadinanza e direi, visti i risultati, che possa bastare.

Un salario minimo per legge? Va bene. Ma come si stabilisce a quanto ammonta? In base a quali parametri? Può funzionare un salario minimo universale a prescindere dai settori produttivi? Per alcuni di essi potrebbe essere troppo alto e le aziende andrebbero verosimilmente fuori mercato, per altri potrebbe al contrario essere troppo basso. Sono materie da maneggiare con cura, senza per questo rimandare troppo nel tempo il modello che alla fine si intende adottare.

I sindacati hanno espresso legittimo scetticismo su una paga oraria minima per legge. È comprensibile, giacché il compito principale delle organizzazioni sindacali è quello di stipulare contratti e di concordare con le controparti i livelli retributivi. Con una legge, non dico che verrebbe meno questo ruolo, ma saremo in presenza, per la prima vota nel nostro Paese, di una fonte superiore, appunto la legge, in tema di salari. È anche giusto dire che i sindacati hanno assunto posizioni aperte e responsabili, non escludendo del tutto questa soluzione.

Una posizione responsabile le organizzazioni confederali sono però chiamate ad assumerla nel caso si preferisca, in luogo del salario minimo, l’estensione erga omnes dei contratti collettivi, perché questa operazione (probabilmente la più sensata) non può essere fatta senza una legge che misuri rappresentanza e rappresentatività dei sindacati.

In altre parole, chi rappresenta chi e chi contratta per chi, in un Paese dove ci sono qualcosa come mille contratti collettivi, molti dei quali firmati da organizzazioni sindacali la cui reale rappresentatività è, ad essere generosi, discutibile.

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