Non ha senso distinguere paesaggi naturali e artificiali. Ci muoviamo in spazi nei quali questi valori coesistono simultanei, anche se con diverse prevalenze. Dando risposte alle costanti esigenze di trasformazione, alteriamo continuamente quanto preesiste: innovare è obiettivo inconfutabile. Proprio perché figli di una cultura antichissima, siamo consapevoli che il vero insegnamento della storia non è conservare, ripiegarsi nella contemplazione del passato. Il senso profondo della tradizione è nell’innovazione e nella trasformazione, nella continua introduzione di qualità inedite nell’ambiente preesistente.
L’immagine del nostro territorio è stata a lungo legata alla qualità dei suoi centri urbani e dei suoi paesaggi, risultato di forti interrelazioni tra forme e funzioni, tra valori simbolici e sistemi produttivi, tra architetture e infrastrutture. Questo equilibrio è ora spezzato. Le infrastrutture non svolgono la loro funzione di interconnessione tra le parti urbane ed i vari contesti territoriali, non costruiscono più il paesaggio. Oggi la settorializzazione prevale sull’integrazione. Interventi progettati e realizzati in modo separato producono effetti negativi sui contrasti urbani e paesaggistici. Decenni di trasformazioni improprie, prodotte dal degenerarsi della cultura razionalista che ha portato al predominio di logiche settoriali in apparenza convincenti, hanno diffuso nei nostri contesti insoddisfazione per il nuovo che, unita dalle lentezze nei processi di trasformazione, ha fatto sì che nel buon senso comune prevalga, fenomeno più nostrano che globale, l’anelito verso la conservazione, il recupero, le stasi rassicuranti. Si è cioè generata sfiducia, rinuncia, incapacità di visione del futuro. Altrove il rifiuto del nuovo è patologia da tempo superata. Risale al primo ’900 l’aforisma di Karl Kraus: «Devo comunicare agli esteti qualcosa di rovinoso: un tempo la vecchia Vienna era nuova!».
Nel XX secolo la cultura della separazione ha diffuso la sindrome dell’oggetto edilizio, isolamenti, autonomie. Ha fatto concepire lo spazio come luogo nel quale possano galleggiare oggetti al limite perfetti, ma incapaci di formare la complessa stratificazione di fenomeni indispensabile per vivere e abitare. Quindi ha fatto prevalere le regole interne del costruire sulle regole di immersione: l’immagine dall’alto delle urbanizzazioni contemporanee, con cellule/unità prive dell’informazione che le renda parte dell’insieme, è stata assimilata da Konrad Lorenz al panorama disperante delle cellule neoplastiche nei tessuti con i caratteri patologici fra i più gravi della nostra epoca.
Il XX secolo, pur se imbevuto della cultura della separazione, dominato da funzionalismo e razionalismo e dall’approfondirsi delle specificità disciplinari, al tempo stesso è stato segnato dalla teoria della relatività, da nuova visione del rapporto spazio-tempo, da visuali aperte su complessità e integrazione, da logiche reticolari, tecnologie spaziali, informatica, rivoluzione di abitudini e comportamenti.
Ormai disponiamo dell’attrezzatura culturale e degli strumenti operativi adatti ad affrontare la complessità, avvalerci delle diversità, sostanziarci delle contaminazioni. Siamo coscienti che il monumentalismo sterile, l’astrazione perfezionista, soffocano la vitalità dei processi. Di contro, l’apologia dell’ibrido, dell’imperfetto, delle commistioni sostiene la logica del frammento; il progetto non riguarda più interventi come elementi autonomi.
La costruzione cioè si apre al contesto, alle culture regionali e locali. L’appartenenza diventa valore sostanziale, principio-guida nella valutazione dei progetti. Oggi è essenziale gestire nuove libertà. Si lavora sul non-costruito, sugli spazi liberi, sostanziali per pervenire a nuove focalità urbane. Si opera affrontando la complessità: l’integrazione è scavalcata dalle interazioni.
Multimedialità e tecnologie portano a credere sempre più nelle partnership, negli sconfinamenti disciplinari, nella positività delle mescolanze: come sempre, è possibile, imperativo, introdurre qualità inedite recuperando il preesistente. Oggi meno che mai la qualità architettonica non riguarda soltanto singoli interventi, ma investe nel profondo il paesaggio delle città e del territorio. Il costruito non si qualifica solo per qualità stilistica e formale dei singoli edifici: struttura, funzione e forma. La qualità degli ambienti di vita (costruito e non-costruito; artificio e natura), riguarda la loro espressione formale, avendo però chiaro che l’espressione formale non è che il segnale visibile di realtà invisibili, complesse, ampie e profonde.
Il termine “ambiente di vita” sintetizza e include: urbanistica, paesaggio, ambiente, edificato e non edificato, strutture e infrastrutture. Bruno Zevi, che per ricongiungere urbanistica e architettura nel 1977 introdusse la Carta del Machu Picchu, venti anni dopo a Modena, aprendo il Convegno Paesaggistica e linguaggio grado zero dell’architettura che sospinge l’urbatettura verso «il trapasso di scala alla paesaggistica, all’impegno creativo sul territorio». Nella sua splendida introduzione coglie, simultanei, visione del futuro e lettura dei diversi passati tutti contemporanei, sincronici e al tempo stesso forti della loro diacronicità: sostiene segni e linguaggi fra loro diversi, ma accomunati nel privilegiare l’espressione morfologica dei luoghi, diversità delle culture, il dialogo fra interventi che si susseguono, paesaggi urbani prima che lessico locale. Resta impresso il sintomatico splendido parallelo «urbanistica = Mondrian / paesaggistica = Pollok».
I principi del costruire ritrovano quindi nella scala paesaggistica e nell’espressionismo organico nuovi e antichi assunti. Mondrian L’interesse si sposta verso contaminazioni, dialoghi, predominio delle relazioni immateriali. Rifiuto dell’assoluto. In questo senso qualsiasi intervento, qualsiasi progetto di trasformazione, non può non essere colto, pensato e valutato, se non come parte di un tutto, vale a dire come frammento di sistemi più ampi di cui indaga significati e valori. L’interesse primo del progetto si sposta dalle articolazioni delle materie che lo costituiscono, alle relazioni che si vengono a stabilire con quello che c’è e quello che ci sarà. Ai monologhi figurativi subentra l’attenzione per i dialoghi fra gli edifici.
Ogni trasformazione impone valutazioni prioritarie a scala paesaggistica e ambientale, e nello stesso tempo si sostanzia di positive contraddizioni e arricchimenti a scala ravvicinata. La condizione è cioè mutata: la cultura dell’interazione ricerca forme di co-azione capaci di indirizzare simulazioni, scegliere fra contrapposizioni. Le trasformazioni, che coinvolgano territori vasti o minuti, o che riguardino un solo edificio, sono sempre più complesse, soprattutto nella definizione degli obiettivi e nella comprensione dei contesti.
Per chi progetta, azione prioritaria è l’individuazione del tema: comprenderne il senso, dargli senso e significati, articolare quanto è capace di spiegare l’insieme dando risposta a singole motivazioni, interpretare ogni cosa come frammento di un tutto. La gestione del progetto, tra specificazioni e verifiche, deve poi evitarne la corrosione, arricchirlo, far sì che ogni scelta si collochi all’interno di un sistema, comprenda le scale superiori e al tempo stesso offra spazi a quelle inferiori.
Gli strumenti ormai a disposizione di chi progetta consentono il recupero simultaneo di sogni ancestrali, del rapporto con il clima, il vento, gli odori, i suoni. L’informatica rende possibili non solo simulazioni virtuali credibili, ma rivoluziona il modo di pensare allo spazio, alle trasformazioni, alle variabilità della luce. Il lungo tempo del banalizzante, del semplicismo, del dominio dell’economia è finito. Si diffonde l’aspirazione a vivere in spazi felici, stimolanti, di alta qualità ambientale. Sono gli albori di una nuova rinascenza: l’architettura, la forma artificiale, torna a esprimere significati e valori.
La complessità cioè non è un ostacolo. La dimensione non rappresenta più un fattore ostativo. Integrare, interagire, tessere insieme, etimo della complessità intesa come valore, presuppongono velocità, informazione, comunicazione. Collaborazione è cooperazione, chiarezza dei ruoli, simultaneità di decisioni, interattività esperte in termini di intenzionalità congiunte, orientamenti alternativi dei sistemi organizzativi. Vale a dire al limite in grado di comprendere quando abbandonare procedure di qualità, se è necessario per pervenire a risultati di qualità. Come non lo sappiamo, dobbiamo forse ancora cercarlo di volta in volta: rientra fra quelle che Heinz von Foerster ha definito «domande legittime», quelle di cui non si conosce già la risposta, le uniche che valga la pena di porsi.
Oggi, immersi in complessità elevatissime, formidabile presupposto per evitare visioni schematiche o semplicistiche, l’obiettivo non è raggiungere collimazioni perfette e quindi una stasi ideale. L’obiettivo è saldare, favorire simbiosi.
Oggi il problema è come assicurare continuità fra le diverse scale dei processi di trasformazione, come superare le dicotomie fra urbanistica e architettura, fra strutture e infrastrutture, fra costruito e non costruito. Nello stesso tempo il problema è anche, soprattutto, come manifestare appartenenza ai luoghi, agli ambienti umani e naturali; cioè come concretizzare la coscienza paesaggistica, ambientale e culturale della nostra epoca.
L’Homo Sapiens è parte della natura: continuamente la trasforma per adattarla a usi civili. Nella irruente dinamica e dimensione contemporanea spesso però la ingombra e da Sapiens diventa Insipiens se, nel trasformare, fa prevalere e manifesta egoismi. Ogni trasformazione deve relazionarsi con l’Ambiente, con il Paesaggio e con la Memoria.
Nessuna delle altre specie viventi distrugge paesaggi: solo la specie umana a volte cerca ancora autonomia negli interventi, non sempre si alimenta dell’indispensabile visione sistemica che dovrebbe portarla a privilegiare le relazioni, a operare per frammenti, a non chiudere in sé stesso un intervento in ossequio alla ormai anacronistica triade vitruviana.
Revisione / integrazione di Paesaggi e progetti, in Architettinapoletani, n°6, 2002