Se c’è un’immagine iconica utilizzata ovunque in questa convulsa narrazione sulla pandemia è quella del virus SARS-CoV-2 visto al microscopio. L’utilizzo del microscopio nei laboratori di mezzo mondo è necessario e doveroso per analizzare il genoma del virus, isolarlo e sperimentare possibili vaccini. Simbolicamente agli antipodi appare tuttavia rispetto all’altra e non trascurabile esigenza cui l’emergenza in corso ci spinge con inedita forza: quella di un’analisi panoramica (dunque macroscopica), ampia e stratificata, della realtà sociale ed economica nella quale siamo immersi. Un’indagine capace di identificarne i paradossi, argomentarne la palese insostenibilità e ragionare di come essa abbia contribuito, in forme molteplici, a rendere così pericoloso il nemico invisibile con cui l’umanità si trova oggi a combattere.
Soltanto uno sforzo di questo tipo può rendere possibile vedere la pandemia per ciò che è: il terribile e virulento sintomo della crisi di un intero modello di economia e di società, basato su un sistema di sfruttamento dell’essere umano e della natura insostenibile da tutti i possibili punti di vista.
Se l’attuale crisi ha un merito, è quello di mostrarne senza filtri la fragilità, traducendosi in occasione per un profondo ripensamento. Disuguaglianze sociali crescenti, diritti fondamentali messi a rischio dal progressivo smantellamento del welfare, crisi ambientali, nuove povertà, sistemi democratici che vacillano: persino i pensatori più ortodossi, sostenitori del liberismo e dell’estrattivismo hanno dovuto fare i conti, in questi mesi, con i tremendi scossoni assestati dall’emergenza sanitaria ad un modello economico ritenuto a torto l’unico possibile. La crisi attuale sta già peggiorando la strutturale asimmetria nella garanzia di diritti e nell’allocazione di risorse: a livello economico la pandemia rischia di far scivolare sotto la soglia di povertà un altro mezzo miliardo di persone, tra il 6 e 8% della popolazione globale (stime Oxfam), oltre a minacciare le scorte di cibo globali con potenziale raddoppio delle persone costrette a soffrire la fame.
Ma cos’hanno in comune la pandemia e l’emergenza ecologica?
«Il virus è un messaggio che la natura ci sta inviando». Sono le parole di Ingen Andersen, direttrice generale dell’UNEP, agenzia per l’ambiente delle Nazioni Unite. «Ci sono troppe pressioni sui sistemi naturali; essendo intimamente interconnessi con la natura, se non ce ne prendiamo cura, non possiamo curare noi stessi».
Potremmo partire rilevando che emergenza sanitaria dovuta al CoronaVirus e emergenza ecologica hanno ambedue, innegabilmente, portata globale. Entrambe estrinsecano effetti a tutte le latitudini. Entrambe non guardano in faccia a nessuno: tutti sono vulnerabili all’esposizione al virus come all’esposizione a sostanze tossiche. In tutte le crisi, però, le categorie più vulnerabili sono quelle maggiormente minacciate. Per chi è già fragile infatti – per ragioni sociali, economiche, sanitarie – i rischi, in entrambi i casi, si moltiplicano; in alcuni casi, si sovrappongono.
Lo stato di salute delle popolazioni esposte alla contaminazione ambientale è, ad esempio, maggiormente compromesso, il che si traduce in una minor capacità di reagire alle malattie. Il legame tra i due fattori è tuttavia molto più complesso e stratificato.
Sull’origine stessa della pandemia possono essere identificate cause ambientali rilevanti. Da decenni la comunità scientifica lancia allarmi, avvertendo che gli squilibri ambientali e i cambiamenti climatici hanno impatto sulla fauna selvatica e che ciò porta inevitabilmente all’insorgere di nuovi focolai epidemici.
Il progressivo processo di industrializzazione, il sistema di agro-business e gli allevamenti intensivi di bestiame; le conseguenti politiche di deforestazione e estrazione selvaggia delle risorse naturali compromettono e distruggono interi ecosistemi, una delle cui possibili (e sempre più frequenti) conseguenze è proprio la diffusione di nuovi virus. Ospiti della fauna selvatica, attraverso un processo detto spillover, i virus riescono a compiere un salto di specie, passando dagli animali all’essere umano. Nel 2016 l’ormai celebre saggio di David Quammen, intitolato proprio Spillover, l’evoluzione delle pandemie, avvertiva sul legame intrinseco tra minaccia agli ecosistemi e nuovi virus, chiedendosi profeticamente se la prossima epidemia, The next Big One, sarebbe arrivata «da una foresta pluviale o da un mercato cittadino della Cina Meridionale».
Secondo le ricerche scientifiche più accreditate, il SARS-CoV-2 proviene da una particolare specie di pipistrelli e potrebbe aver approfittato, per arrivare sino all’uomo, di un passaggio fornito da un’altra specie selvatica, il pangolino, un mammifero squamato diffuso in Asia meridionale. Anche in questo caso il salto è stato facilitato dalle pressioni che l’uomo ha inflitto agli ecosistemi. Entrambe le specie selvatiche infatti, pipistrelli rhinolophus e pangolini, sono tra le merci vendute nei mercati di fresco di Wuhan, primo focolaio di quella che sarebbe diventata l’attuale pandemia.
Per ricostruire la catena a ritroso occorre risalire alla deforestazione di vaste aree boschive in Cina per far posto a colture intensive e stabilimenti industriali, che ha causato lo spostamento di specie selvatiche e l’espulsione dal mercato dei piccoli produttori. Molti di essi, spinti dalla necessità di sussistenza, hanno trovato nuove possibilità di reddito nel traffico di specie selvatiche, che, prima vendute in maniera illegale poi ufficializzate, sono arrivate nei mercati cittadini. In tal modo, è stato favorito il salto di specie che ha finito per infettare l’uomo. La stessa dinamica è stata ipotizzata per i recenti focolai di Ebola in Africa, spesso legati al consumo umano di carne di scimmia, vettore del virus. La spinta esercitata dai fattori antropici già citati sulla salute umana è esacerbata e resa più intensa dall’incalzare dei cambiamenti climatici. Per effetto del riscaldamento globale la fauna selvatica sarà costretta a cercare riparo in nuovi habitat, favorendo il passaggio degli agenti patogeni ad altre specie. Ne consegue che allenare la vista a cercare le connessioni evidenti tra fenomeni sanitari e processi ambientali, attivandosi tempestivamente contro gli squilibri ecologici, diviene presupposto per agire a tutela della salute pubblica.
Ma i nessi tra virus e ambiente non finiscono qui. Centrale è anche il ruolo della contaminazione atmosferica nella circolazione dei patogeni. Ad accertare tale legame hanno contribuito, in queste settimane, molteplici ricerche scientifiche. La Società Italiana di Medicina Ambientale ha realizzato e diffuso, assieme alle Università di Bologna e di Bari, un paper che documenta il legame tra particolato atmosferico e diffusione del Sars-CoV-2. Il team di scienziati, tra cui figurano Leonardo Setti e Gianluigi De Gennaro, hanno concluso che il particolato funge da vettore – una sorta di zattera – per i virus, che in tal modo possono resistere in condizioni vitali per ore, giorni o settimane ed essere trasportati per lunghe distanze. Analizzando i superamenti dei limiti normativi delle concentrazioni atmosferiche nella zona padana e mettendoli in relazione con le persone contagiate, lo studio dimostra una perfetta compatibilità tra andamento epidemico e presenza di particolato. Le polveri sottili, in altre parole, fungerebbero da vere e proprie «autostrade per il contagio», il che – conclude il documento – rende necessaria l’adozione di «misure restrittive di contenimento dell’inquinamento».
Alle stesse conclusioni giungono numerosi altri documenti, tra cui la recentissima ricerca dell’Università di Harvard pubblicata sul New England Journal of Medicine e condotta dalla prof.ssa Francesca Dominici. Analizzando i dati relativi a 3.080 contee, lo studio ha rilevato l’esistenza di un legame statistico negli Stati Uniti tra decessi per Covid-19, altre malattie associate all’esposizione ambientale e particelle sottili: minimizzare il particolato atmosferico riducendo le emissioni sarebbe quindi utile non solo a contrastare il climate change e a tutelare la salute pubblica dalle patologie cardio-respiratorie collegate all’aria inquinata, ma avrebbe anche il merito di fungere da ostacolo a un’incontrollata diffusione di agenti patogeni.
É innegabile che il lockdown stia temporaneamente migliorando la qualità dell’aria e concedendo una boccata di ossigeno a chi vive in zone normalmente molto contaminate. Ma le previsioni per il futuro potrebbero riservarci brutte sorprese. Carbon Brief ha calcolato che il lockdown in corso in molti paesi potrebbe tradursi in un calo delle emissioni globali del 4% rispetto al 2019, con 1,6 miliardi di tonnellate di Co2 in meno in atmosfera. Una riduzione sensibile ma comunque insufficiente a centrare l’obiettivo di contenere il global warming entro i +1,5°C a fine secolo. Secondo il rapporto IPCC del 2018 occorrerebbe infatti un taglio costante del 6% l’anno per il prossimo decennio.
Ma anche se il taglio del 2020 fosse superiore alla soglia minima indicata dall’IPCC, ciò non significherebbe che si è compiuto un passo avanti nella battaglia contro in riscaldamento globale. Occorrono infatti trend di riduzione stabili e a lungo termine affinché vi sia una concreta riduzione delle concentrazioni di gas a effetto serra alla base degli sconvolgimenti climatici. Ad oggi, nonostante la cospicua riduzione delle emissioni dovute alla congiuntura, il riscaldamento globale non sta decelerando, e neppure i tassi di innalzamento dei mari o lo scioglimento dei ghiacciai. Ad affermarlo è la World Metereological Organization, che ha affidato alle parole del segretario generale Petteri Taalas le preoccupazioni per la fase post-emergenza e l’esortazione a indirizzare gli investimenti di stimolo all’economia verso politiche climaticamente compatibili.
Anche altri eminenti scienziati hanno già lanciato appelli e avvertimenti. Tra essi, François Gemenne, membro dell’IPCC e ricercatore dell’Università di Liegi, che ha messo in guardia sul rischio che la crisi causata dal CoronaVirus possa tradursi a medio termine in una catastrofe climatica. La riduzione delle emissioni e i benefici ambientali nel breve periodo potrebbero essere soppiantati da una decisa accelerazione motivata dall’assegnare massima priorità alla ripresa economica rispetto al contrasto al climate change. «Una logica che, mirando a rilanciare l’economia, potrebbe portare alla revisione al ribasso dei target di riduzione delle emissioni e a normative ambientali ancor più blande». Ne è un primo segno la decisione di rimandare al 2021– invece che celebrare in forma diversa – la Cop26 originariamente prevista a novembre a Glasgow. Non sarebbe la prima volta che dopo una crisi, come accadde nel 2008, si assiste a un aumento delle emissioni. Si chiama effetto rimbalzo.
Se ascoltassimo questi moniti, attraversata e finalmente archiviata l’emergenza dovrebbe aprirsi una nuova fase, con l’unico obiettivo di riflettere sui limiti intrinsechi del modello sociale, economico e politico. Tuttavia, ciò non è affatto scontato. A livello nazionale, nonostante le timide dichiarazioni del ministro Sergio Costa, che ha assicurato che i devastanti effetti sull’economia non intaccheranno la spinta impressa – in maniera ancora del tutto parziale e insufficiente – dal Green New Deal europeo, si sono già levate chiassose voci di protesta. Tra esse spicca per miopia la richiesta presentata alla Commissione Europea dagli europarlamentari di Fratelli d’Italia affinché il Green deal sia rinviato fino al termine della crisi: «Di fronte al rischio di una completa desertificazione del tessuto produttivo, continuare a perseguire ricette utopistiche in nome di un ambientalismo ideologico – scrivono – sarebbe folle e irresponsabile».
La richiesta si unisce alle pressioni in tal senso esercitate da altri paesi europei, come Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. Lega Nord e Forza Italia, da parte loro, hanno già colto occasione per chiedere al governo l’immediata abolizione della Sugar Tax e della Plastic Tax – già assai poco ambiziose – nonostante siano considerate da OMS e ONU misure necessarie alla protezione dell’ambiente e della salute pubblica. Oltre confine i segnali non sono migliori. Donald Trump ha prontamente approfittato della pandemia per sospendere l’applicazione delle leggi ambientali annunciando, d’accordo con l’EPA – agenzia Usa per l’ambiente – che non vi saranno sanzioni per la contaminazione prodotta: un regalo alle multinazionali inquinanti provvidenziale in vista della campagna presidenziale alle porte. Il provvedimento non ha data di scadenza, e secondo il Guardian sarebbe collegato alle pressioni delle lobby dell’oil&gas. Il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, da sempre vicino alle posizioni del collega statunitense, aveva inveito – prima di risultare lui stesso positivo al virus – contro l’idea della chiusura a lungo termine di aziende e esercizi commerciali, difendendo una prospettiva business as usual anche e a maggior ragione in tempi di emergenza.
A livello planetario, molti incentivi per la ripresa rischiano di essere investiti nel supporto al settore delle energie fossili. L’asse sovranista proverà a utilizzare le argomentazioni fornite dalla contrazione del Pil come leva per spingere verso l’abbandono di ogni politica improntata ad una maggior sostenibilità ambientale. Questi esempi indicano che la fase post-virus potrebbe ulteriormente ritardare l’invece urgentissima transizione ecologica. In ogni crisi il capitalismo ha invariabilmente trovato nuova linfa per rafforzare lo status quo, consolidando o correggendo al rialzo i rapporti di potere e la sperequazione economica. É la dinamica ben descritta ormai più di un decennio fa da Naomi Klein nel saggio Shock Economy.
Ma questa crisi ci dimostra anche, al contrario, che sussistendone la volontà politica, saremmo in condizioni di ridurre radicalmente le emissioni di Co2 se producessimo e trasportassimo meno merci. In quest’ottica, di fronte alle sfide ambientali e sociali sempre più pressanti, la revisione a basso impatto dei sistemi produttivi dovrebbe essere considerata l’unica risposta possibile.
Da ultimo, non certo per importanza, corre l’obbligo di arrischiarsi in una metafora ulteriore. Se del concetto di pandemia riscattiamo, come elemento qualificante, il rischio diffuso di contrarre una malattia, possiamo spingerci a definire la stessa contaminazione ambientale come una vera e propria pandemia. Il solo inquinamento atmosferico causa ogni anno nel mondo circa 7 milioni di morti premature. Secondo il Climact Impact Lab, con uno scenario a emissioni invariate si arriverebbe nel 2100 ad aggiungere a questa cifra un altro milione e mezzo di decessi l’anno. In Italia, si calcolano 76.200 morti premature l’anno, con il primato europeo di mortalità da smog.
Si tratta però di un contagio silenzioso, progressivo, che non emerge d’improvviso e che in parte – nella parte più immediatamente visibile – esplica i suoi effetti in un territorio geograficamente circoscritto, incidendo sulla salute delle popolazioni insediate. Nei territori che ospitano produzioni contaminanti, giacimenti di combustibili fossili, impianti manifatturieri o mega infrastrutture ad alto impatto le popolazioni residenti pagano da anni un prezzo altissimo in termini di ricadute sanitarie e eccesso di mortalità. Come per il virus, anche in questi casi le cause sono note, ma non altrettanto rapidamente si agisce per rimuoverle o contenerle.
Se volessimo utilizzare l’odierna crisi come esempio, due mesi di lockdown in Cina avrebbero, secondo la Stanford University, salvato da morte prematura 4.000 bambini sotto i 5 anni e ben 73.000 adulti over 70, per effetto della diminuzione dell’inquinamento atmosferico, numeri impressionanti e ben superiori ai circa 4.600 deceduti a oggi registrati a causa del virus.
Infine, a pendere sulle nostre teste permane la spada di Damocle dei cambiamenti climatici, il più eclatante esempio di come gli equilibri in gioco siano anche, e soprattutto, globali. Non si tratta di una crisi temporanea, ma di un processo irreversibile i cui effetti incalcolabili saranno peggiori di qualunque pandemia. Le stime sono molteplici e tutte sconcertanti; una su tutte, la previsione diffusa un anno fa dall’Unep secondo cui andiamo incontro a un possibile collasso del pianeta nel 2050 che causerà diversi milioni di morti a livello globale.
Una cosa è chiara. Non abbiamo scelta. Fare tesoro della lezione che ci consegna la crisi sanitaria per ripensare e reindirizzare l’intero sistema socioeconomico verso l’equità e la sostenibilità ambientale e sociale è da tutti i punti di vista l’unica strada percorribile per trasformare la terribile pandemia in una preziosa occasione. Le alternative ci sono. Le possibilità economiche e gli strumenti tecnologici, anche. L’obiettivo è orientare la produzione verso attività meno inquinanti, investire in massicci piani di riconversione, in controlli efficaci, in efficienza, nell’implementazione diffusa delle energie rinnovabili, nelle bonifiche, nello stimolo a modelli di economia circolare. Aspettarsi che lo faccia la politica da sola, o che si auto determinino in tal senso i grandi player dell’economia globale è però non meno ingenuo che improbabile. Come in ogni grande cambiamento, la funzione di spinta esercitata dall’opinione pubblica, dalla società civile, dal mondo della scienza e della cultura è destinata a giocare un ruolo di insostituibile importanza. Bisogna iniziare dal basso a proporre e costruire, non c’è tempo da perdere.