Pandemia, memoria e consumo culturale

Perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.
(Giorgio Gaber, C’è solo la strada, 1974)

Abito a Roma a circa un chilometro dalle Fosse Ardeatine e da trenta anni tutte le volte che devo andare verso il centro della città passo davanti a quell’avvallamento, proprio quello lì, che è l’origine etimologica della parola catacomba. Ci passo all’andata e pure al ritorno, anche più di una volta al giorno. Non ci passo davanti distrattamente, ma sempre con un pensiero dedicato. Rallento, sbircio dentro, oltre il cancello che non è mai spalancato perché è una soglia stretta da varcare con la coscienza che si lascia un mondo per entrare in un altro.
Questa necessità logistica l’ho sempre considerata una specie di benedizione, un allenamento della memoria, un memento quotidiano. Quando uscì il libro di Sandro Portelli sulla strage, decisi di andarmelo a leggere là dentro nel silenzio tragico che è ancora oggi la cifra di quel posto, come se il crepitìo delle mitragliatrici fosse cessato da poco e lo stupore si fosse impadronito di tutto per sempre.
Roma è una città segnata dalle Fosse, saranno forse un centinaio le lapidi (quasi sempre imbellite da un mazzo di fiori o da una corona, non importa se secchi) sui muri delle case dove abitavano o nel tratto di strada dove furono strappati alla vita quelli che ci rimisero la pelle. E sono ovunque, nei quartieri borghesi e in quelli popolari, case di professori di liceo e di operai. Pietre d’inciampo per gli occhi ante litteram, Roma le ha sempre avute.
Il ricordo delle Fosse è vivo ed è tenuto vivo dalle associazioni cittadine (quelle partigiane, ma anche quelle militari) e soprattutto dalle realtà di quartiere delle zone limitrofe, fra Garbatella e Ostiense, zone da sempre orientate a sinistra per la loro storia di insediamenti prossimi alla zona industriale di inizio Novecento, poi di radicamento popolare e antifascista. Il Municipio VIII è molto impegnato a promuovere iniziative per il 24 marzo, in special modo con le scuole medie e con le superiori; ma un ruolo preminente lo hanno le associazioni territoriali e in particolare il centro sociale La Strada.
Dopo 76 anni quest’anno per la prima volta il 24 marzo il silenzio ha regnato sul piazzale delle Fosse. Niente ragazze e ragazzi, niente scuole, striscioni, palloncini rossi, niente discorsi, niente raccoglimento, niente sorrisi mesti. Alle sei di pomeriggio abbiamo fatto suonare Bella ciao a palla dai balconi e forse il vento qualcosa ha portato fra le cave, ma non è la stessa cosa. Quelli de La Strada hanno messo i loro bei striscioni in giro «ci hanno sotterrato ma eravamo semi», ma per gli occhi di chi, ché stiamo tutti tappati in casa?
In questi giorni quando, sempre più raramente, passiamo davanti alle Fosse mandiamo una promessa ideale, torneremo presto a raccoglierci presso di voi.
Si ferma tutto e si ferma perciò anche l’esercizio della memoria pubblica. I pezzi di passato che amiamo ricordare insieme hanno bisogno di essere costantemente concimati dal nostro eterno dissotterrarli, solo così possiamo continuare a trasmetterne il senso. Questo ricordare è perciò un insegnare a ricordare e un imparare a ricordare, visto che non si tratta di un esercizio mnemonico ma di una educazione civica.
Ma non si vive di sola memoria, chi lo fa quella memoria la inaridisce e la rende nostalgia, il «dolore del ritorno» secondo il significato greco, una «memoria che è già dolore» come per il pescatore di Fabrizio De André. La memoria ha un futuro se diventa archivio, studio, conoscenza della storia, capacità critica, lettura e rilettura, partecipazione sociale, contrasto e conflitto: altrimenti è una parata, più o meno riuscita.
Per assurdo che possa sembrare siamo ora quasi costretti a riscoprire il valore lenitivo dei depositi di memoria. É sorprendente come in questi giorni di lentezza e quiete forzata (si fermano anche le guerre, l’unico fronte è quello sanitario), nei giorni in cui di documenti ne produciamo pochi, a parte le raccolte delle autocertificazioni, gli archivi digitali diventino la miniera dove attingere stimoli culturali o di svago per riempire il vuoto. Chi fa cultura mette on line le sue produzioni, spettacoli teatrali o concerti, i musei si attrezzano con visite guidate virtuali, le biblioteche promuovono il prestito di ebook, gli archivi storici mostrano i loro tesori, le radio (viva Radio3!) invitano a scaricare vecchie trasmissioni di tutti i tipi, la televisione pesca nelle sue teche le cose migliori dall’intrattenimento, alla comicità, allo sport. Se non possiamo produrre o lo possiamo fare a ritmo ridotto, compensiamo il meno presente con più passato, forse anche perché percepiamo, con maggiore o minore consapevolezza, che quello che ci accomuna non è solo una bandiera o un inno ma i nostri romanzi di formazione, le canzoni che ci hanno emozionato, le passioni che ci hanno diviso. E ora hanno più spazio per accompagnarci in questa crisi epocale.
Tutto questo è reso possibile dal digitale. Il digitale riempie il tempo sospeso, è consolatorio sia nel vuoto che nel pieno culturale. Produce contemporaneamente sia spazzatura informativa che si propaga velocemente sia la possibilità di ascoltare il direttore del Museo Egizio di Torino decidendo noi il come e il quando. É una tavola da surf, dipende chi ci sale sopra e come sa navigare. É un bene prezioso che ora non è equamente distribuito e questo esalta la diseguaglianza degli accessi che è soprattutto una diseguaglianza sociale e territoriale. Lo metterei in testa tra le priorità del dopoguerra, una vera «grande opera» sociale, un nuovo parametro di cittadinanza, un diritto da far entrare in Costituzione.
Stiamo lentamente capendo che ciò che ci sta capitando durerà a lungo e lascerà segni profondi, produrrà mutamenti strutturali nei modi di vivere e pensare. Non mi auguro un mondo che sublima il vedersi, il toccarsi, il parlarsi da vicino con i surrogati digitali dei nostri sensi. La tecnologia di rete, le connessioni sempre più performanti ci daranno sempre più chance, ma bisognerà tornare appena possibile a leggere libri in biblioteca, vedere quadri nei musei, consultare documenti negli archivi, perché questo lo si fa in spazi pubblici e non in solitudine ma soprattutto perché il portato sentimentale dell’esperienza sensibile è una dimensione ancestrale di cui essere gelosi.
É per questo che oltre al timore primario riguardante la qualità biologica della nostra vita si affaccia un timore per me nient’affatto secondario. Occorre alzare la voce affinché il mondo della cultura, un mondo vasto che va dai tecnici delle luci ai ricercatori, dall’artista ai grafici digitali, non solo sia tenuto fuori dai sacrifici che dovranno essere accollati alla comunità nazionale ma venga riconosciuto come uno dei volani da cui il paese, direi il mondo, potrà ripartire.
Ecco, dalle Fosse Ardeatine sono ritornato a casa.
Se ci volete andare anche voi:mausoleofosseardeatine.it.

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