In questi giorni, non ancora lontani dal giorno della vittoria dell’Italia al Campionato Europeo di calcio, si parla molto di «fare squadra». Il merito maggiore che si attribuisce a Roberto Mancini, il commissario tecnico della vincente nazionale italiana, è proprio quello di aver saputo costruire una squadra di uomini capaci di mettere il lavoro di gruppo al di sopra delle proprie aspirazioni personali.
Tutti i commentari, non solo sportivi, sono d’accordo con questa lettura.
Si parla di sport e di cose della vita che danno gioia e ristoro, ma non essenziali. Epperò ci indicano una strada che vale per ogni attività umana, se si vuole raggiungere un obiettivo importante per la collettività è meglio lavorare insieme.
Un concetto che Paolo Borsellino e Giovanni Falcone avevano capito bene e prima di loro lo avevano capito altrettanto bene Antonino Caponnetto e Rocco Chinnici.
Il pool antimafia, infatti, è la testimonianza più efficace del concetto di squadra, del lavorare in gruppo. Fu un’intuizione di Rocco Chinnici, che vide proprio in Antonino Caponnetto il capo di una squadra che comprendeva oltre a Borsellino e Falcone, i giudici istruttori Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Squadra che diventò sempre più ampia con gli innesti di Giuseppe Ayala, Gioacchino Natoli, Ignazio De Francisci. C’erano anche esponenti delle forze dell’ordine quali Angiolo Pellegrini, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Gianni De Gennaro.
Ovvero Rocco Chinnici capì che per arrestare o indebolire il sistema mafioso che dominava in Sicilia e stava allargando i suoi interessi anche al Continente, occorreva mettere insieme i migliori investigatori, le migliori intelligenze, per condividere conoscenza e saperi.
Nacque un gruppo inossidabile che condivise tutto pur di raggiungere il risultato prefissato e che per fermarlo la mafia dovette ricorrere a delle mostruosità che non si erano mai viste prima, le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.
Quel gruppo, quella squadra, portò alla sbarra 460 mafiosi. Ottenne 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione nel processo di primo grado. Il maxiprocesso, questo il nome con cui tutti abbiamo conosciuto quel procedimento, iniziò il 10 febbraio del 1986 e terminò il 16 dicembre del 1987.
La sentenza della Cassazione fu emessa il 30 gennaio del 1992 e confermò tutte le condanne richieste in primo grado.
Quella sentenza ne determinò un’altra, questa volta a morte, per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che vennero uccisi per mano della mafia, e con loro gli agenti di scorta e la moglie di Falcone, rispettivamente il 23 maggio e il 19 luglio di quello stesso anno. Intercorsero 57 giorni tra la morte del primo e quella del secondo.
Con Paolo Borsellino, nell’attentato di via D’Amelio, morirono gli agenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli.
Alle 16:58 del 19 luglio 1992 fu fatta esplodere una Fiat 126 parcheggiata sotto l’abitazione della mamma del procuratore aggiunto di Palermo. Un evento tragico per la maggioranza dei cittadini italiani, ma affatto inatteso. Chi era più addentro ai fatti, come il vicecomandante della Squadra Mobile di Palermo, Ninni Cassarà, stretto collaboratore di Falcone e Borsellino, aveva già certezza di questo nel luglio del 1985 quando disse proprio a Borsellino, «Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano». Il 28 luglio di quello stesso anno Cosa nostra aveva ucciso Beppe Montana, commissario della squadra mobile di Palermo.
Eppure, nonostante tutti avessero questa consapevolezza, a cominciare proprio dai diretti interessati, nessuno fu in grado di evitare quelle stragi e quei morti.
Con il senno di poi è facile scrivere, dissertare. Formulare ipotesi, continuare a fare allusioni, «dire, non dire» come rimproverava Falcone a Tommaso Buscetta durante gli interrogatori. L’unica cosa seria da fare è continuare ad indagare. A scavare tra le carte, a rileggere i verbali, le interviste. Ascoltare i testimoni, chi c’era. Non smettere di cercare la verità.
Borsellino e Falcone fecero squadra in una Procura, quella di Palermo, in cui nessuno si fidava di nessuno. Rischiarono e puntarono sulla riconoscibilità e unità del gruppo. In un Paese come il nostro, portato più all’individualismo che al lavoro comune, quell’esperienza resta una grande lezione, uno dei lasciti più importanti del lavoro dei due giudici.
Non sarà un uomo solo a scoprire la verità che c’è ancora da scoprire sulla strage di via D’Amelio o su quella di Capaci, ma una nuova generazione di magistrati e forze di polizia capaci di lavorare insieme e per il bene comune. È questo il modo migliore, forse l’unico, per ricordarli come meritano e far continuare a vivere il loro fulgido esempio.
«Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene», disse Paolo Borsellino. E noi lo faremo, continueremo a parlarne in radio, in televisione, sui giornali.