Paul Auster, l’amore per l’uomo e la letteratura

Partendo dall’analisi di sé ha scavato, cercato e ricercato la ragione, le ragioni, per le quali viviamo. Si è chiesto da dove veniamo e perché. Qual è l’origine delle nostre paure e se è possibile rintracciarle nel ricordo, nei ricordi. Ha indagato l’ineluttabilità del caso, del destino, e di come condizioni e determini la nostra vita, la molteplicità della vita di ognuno di noi. E si è spinto, volte e più volte, sulla soglia che separa la vita dalla morte. Ci ha girato intorno, quasi danzando, forse per essere più leggero e guardare oltre con occhi e cuore più liberi. Non si sa se tutto finisce davvero una volta per sempre, se c’è qualcosa dopo, o se la vita terrena sia un tassello di qualcosa di più grande di noi e perciò non comprensibile del tutto. Come ha scritto in Follie di Brooklyn, c’è qualcosa che vive dopo di noi e vive per sempre: i libri. Quelli resteranno per sempre con noi e dopo di noi con chi li erediterà.

Ha cantato New York come pochi, facendo assurgere la città per eccellenza a paradigma della cultura occidentale, un nessun luogo in cui ognuno insegue sé stesso o ciò che crede di essere. Ha scritto e descritto New York prima che la contemporaneità tecnologica prendesse il sopravvento, per ricordarci che l’infanzia della modernità non potrà essere mai cancellata. Questo mi fa venire in mente un componimento di Peter Handke sulla capacità umana di non dimenticare, di non far morire l’infanzia delle cose, l’origine stessa delle cose. E il ricordo si appalesa, mi viene incontro, con la voce di Bruno Ganz nella scena iniziale de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.

«Quando il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente;
e questa pozza, il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima, e tutte le anime erano tutt’uno…».

Grazie Paul Auster, mi hai fatto amare la letteratura come pochi sono stati capaci di fare. Non smetterò mai di ringraziarti.


«Ti piacerebbe sapere chi sei. Avendo scarse o nulle indicazioni a riguardo, dai per scontato di essere il prodotto di vaste migrazioni preistoriche, di conquiste, di stupri e rapimenti, che le lunghe e tortuose intersezioni della tua orda ancestrale si siano allungate in molti territori e regni, perché in fondo non sei l’unico ad avere viaggiato, le tribù degli esseri umani si spostano per la terra da migliaia di anni, e chissà chi ha generato chi ha generato chi ha generato chi, fino ai tuoi due genitori che nel 19+74 hanno generato te? Puoi risalire solo fino ai tuoi nonni, con qualche scarsa informazione sui bisnonni materni, vale a dire che le generazioni venute prima di loro sono ridotte a uno spazio bianco, un vuoto di ipotesi e congetture cieche».
(Paul Auster, Diario d’inverno)

«Il vecchio è seduto sull’orlo del piccolo letto con le mani appoggiate a palmi aperti sulle ginocchia, la testa bassa, gli occhi al pavimento. Non si sogna nemmeno di pensare che nel soffitto proprio sopra di lui sia nascosta una macchina fotografica. A ogni secondo l’interruttore fa uno scatto silenzioso, producendo ottantaseimilaquattrocento fotogrammi per ogni rivoluzione della Terra. E anche se il vecchio sapesse che lo stanno guardando, non cambierebbe nulla. La sua mente è altrove, arenata tra le immagini fittizie che gli affollano il cervello mentre cerca una risposta alla domanda che lo ossessiona.
Chi è lui? Cosa ci fa qui? Quando è arrivato, e fino a quando resterà? Con un po’ di fortuna, il tempo ci dirà tutto. Per ora, nostro unico compito è studiare con la massima attenzione le immagini senza voler dedurre conclusioni premature».
(Paul Auster, Viaggi nello scriptorium)

«Mantenesti la promessa e le scrivesti il 3 novembre, circa due settimane più tardi. Non da Parigi, come avevi immaginato, ma da New York, dal momento che la tua permanenza si sarebbe prolungata da “qualche giorno” a più di tre anni […] Quello era il posto in cui eri tornato, un epicentro di probabili crolli nervosi, e quali che fossero le difficoltà personali che potevi aver affrontato in quell’anno, era impossibile isolarle dall’atmosfera funesta in cui eri immerso… […] eri rimasto parecchi giorni nella sua casa di Manhattan “a parlare di varie cose”, in particolare di come avevi incasinato te stesso il tuo futuro».
(Paul Auster, Notizie dall’interno)

«Pensa alle prime scene di Ladri di biciclette. L’eroe riesce ad avere un lavoro, ma non potrà andarci se non riscatta la bicicletta dal monte di pietà […] che non è un negozio, ma un luogo enorme, una specie di deposito di beni indesiderati. La moglie impegna le lenzuola e vediamo uno degli operai portare il fagotto verso le scaffalature dove sono ammassati i vari beni. Lí per lí gli scaffali non sembrano tanto alti, però poi la macchina indietreggia e quando l’uomo comincia a inerpicarsi vediamo che salgono sempre più su, fino al soffitto, e ogni scaffale, ogni vano, è stipato di fagotti identici a quello che adesso l’uomo sta immagazzinando, ed ecco che d’un tratto ci sembra che tutte le famiglie di Roma abbiano venduto le proprie lenzuola, che l’intera città versi nelle medesime difficoltà dell’eroe e di sua moglie. In un’inquadratura, nonno, in un’inquadratura sola, riceviamo l’immagine di una società al completo sull’orlo del disastro».
(Paul Auster, Uomo nel buio)

«Era così bella, la madre di Ferguson, così attraente con quegli occhi grigio-verdi e i lunghi capelli castani, così spontanea e vivace e pronta al sorriso, con quelle forme distribuite in maniera così appetitosa sul metro e sessantotto che aveva ricevuta in sorte, che Stanley, stringendole la mano per la prima volta, il freddo e normalmente distaccato Stanley, il ventinovenne che mai una volta era stato consumato dal fuoco dell’amore, si sentì disintegrare davanti a Rose, come se gli avessero risucchiato tutta l’aria dai polmoni e non fosse più in grado di respirare […] Rose, a differenza di Stanley, era già stata arsa dalle fiamme di un amore appassionato. Senza la guerra, che le aveva portato via quell’amore, non si sarebbero mai conosciuti, perché lei sarebbe stata già sposata con un altro ben prima di quella sera d’ottobre, ma il giovane con cui era fidanzata, David Raskin, il futuro medico nato a Brooklyn entrato nella sua vita quando lei aveva diciassette anni, era morto in seguito a un’esplosione accidentale durante una normale esercitazione a Fort Benning in Georgia».
(Paul Auster, 4 3 2 1)

«I pensieri sono reali, – aggiunse. – Le parole sono reali. Tutto quello che è umano è reale, e a volte conosciamo le cose prima che succedano anche se non ne siamo consapevoli. Viviamo nel presente, ma il futuro è dentro di noi in ogni momento. Forse scrivere è proprio questo, Sid. Non registrare i fatti del passato, ma far succedere le cose nel futuro».
(Paul Auster, La notte dell’oracolo)

«Nella nostra epoca, tutto diventa decrepito nel giro di un giorno; chi vive troppo, muore quando è ancora vivo. Procedendo nella vita, ci lasciamo dietro tre o quattro nostre immagini, diverse le une dalle altre; poi le rivediamo nelle nebbie del passato come ritratti delle nostre diverse età».
(Paul Auster, Il libro delle illusioni)

«La notizia della morte di mio padre mi ha raggiunto tre settimane fa. Era domenica mattina, e stavo in cucina a preparare la colazione per il piccol Daniel, mio figlio […] Chissà come, mi scoprii preparato ad accettare la sua morte, per inaspettata che fosse. A turbarmi era un altro pensiero, staccato dalla morte di mio padre e dalla reazione che mi suscitava: il constatare che non aveva lasciato tracce […] Il rabbino che celebrò il funerale ero lo stesso che diciannove anni prima aveva celebrato il mio bar mitsvà […] Non conosceva bene mio padre, anzi: non ne sapeva nulla, così un’ora e mezza prima della cerimonia sedetti insieme a lui e gli spiegai cosa avrebbe dovuto dire nell’elogio funebre. Prese appunti su piccoli foglietti volanti […] Ho la sensazione dia ver cominciato a scrivere questa storia tanto tempo fa, molto prima che mio padre morisse».
(Paul Auster, L’invenzione della solitudine)

«Avrei resuscitato quella persona in parole, e una volta che le pagine fossero state stampate e la storia rilegata dentro la copertina, i cari avrebbero avuto qualcosa a cui aggrapparsi per il resto della loro vita. Anzi, qualcosa che sarebbe vissuta dopo di loro, che sarebbe vissuta dopo tutti noi.
Mai sottovalutare il potere dei libri».
(Paul Auster, Follie di Brooklyn)

«Da allora ho continuato a scrivere, aggiungendo qualche nuova pagina ogni giorno, cercando di raccontare tutto. Talvolta mi chiedo cosa ho tralasciato quanto ho dimenticato e non sarà più possibile riportare a galla, ma sono domande a cui non si può dare una risposta. Ora il tempo rimasto è poco e non devo sprecare più parole del necessario […] Più ti avvicini alla fine, più ti rimane da dire. La fine è solo immaginaria, una destinazione che inventi per continuare ad andare avanti, ma arrivi a un punto in cui ti accorgi che non vi giungerai mai. Può darsi anche ti debba fermare, ma soltanto perché è finito il tempo a tua disposizione. Ti fermi, ma questo non significa che sia arrivato alla fine».
(Paul Auster, Nel paese delle ultime cose)

«Il Piccolo Principe è stato scritto a New York […] al numero 240 di Central Park South, a Manhattan […] Il 240 di Central Park South è un edificio strano, asimmetrico, che sorge sull’angolo verso Columbus Circle. La costruzione fu completata nel 1941, e i primi inquilini vi entrarono appena prima di Pearl Harbor e dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Non conosco la data esatta in cui venne ad abitarvi Saint-Exupéry, ma deve essere stato uno dei primi residenti del palazzo. Per una delle strambe anomali che non significano assolutamente nulla, la stessa cosa capitò a mia madre […] è toccante per me pensare che mia madre sia vissuta nello stesso edificio dove Saint-Exupéry scrisse Il Piccolo Principe […] I miei nonni continuarono a vivere al 240 di Central Park fino alla morte (quella della nonna nel 1968, quella del nonno nel 1979), e molti dei miei principali ricordi d’infanzia sono ambientati nel loro appartamento […] Fu lì che poco a poco mi resi conto che New York era la mia città».
(Paul Auster, Esperimento di verità)

«Quando arrivai alla South Station erano appena scoccate le sette. Il treno per New York era partito da un quarto d’ora, e non ce ne sarebbe stato un altro prima delle otto e mezza. Mi sedetti su una panchina di legno, con il taccuino rosso sulle ginocchia […] Ogni frase annullava la frase precedente, ogni paragrafo rendeva impossibile il successivo […] In quel momento non ero in condizione di leggere nulla, e forse il mio giudizio è alterato. Ero lì, scorrevo le parole con gli occhi, e stentavo a credere a quello che vedevo.
Mi recai sul binario con qualche minuto di anticipo. Aveva ricominciato a piovere, e nell’aria davanti a me vedevo il mio respiro uscirmi dalla bocca in piccoli sbuffi di nebbia. Strappai le pagine del taccuino una a una, le accartocciai e le gettai in un cestino di rifiuti. Giunsi all’ultima pagina proprio mentre il treno si metteva in movimento».
(Paul Auster, Trilogia di New York)

Related posts

Le radici non si estirpano

L’Italia e il delitto Moro: una storia pubblica e privata

La scoperta di Pavese negli anni dell’utopia