Paura di saltare

Il destino del Pd e dei suoi partiti satellite (che bizzarramente si pensano come alternativi al pianeta dem ma che sono in realtà del tutto consustanziali ad esso) è legato a filo doppio a quello dell’Ue.

La scommessa su cui il partito è nato, infatti, è che la periferia italiana avrebbe potuto accedere ad un benessere ben condiviso attraverso una messa a norma, un adattamento delle sue strutture e dei suoi processi al pacchetto di parametri ordo-liberali dell’Ue. Per questo, occorre leggere adeguatamente quello che è successo alle ultime legislative. Non a quanto è successo laggiù in basso, nelle urne (il cui contenuto era del tutto prevedibile), ma lassù in alto, ossia in riferimento alla manovra complessiva che ha portato la destra al governo del paese. Nessun complottismo, per carità. Solo un concatenamento di fatti che ha reso pressoché obbligati alcuni esiti.

L’affidamento del paese alla Meloni va interpretato come l’ultimo (in ordine di apparizione) colpo di coda dell’Ue. Dopo diversi tentativi di disciplinamento del paese, che hanno richiesto all’occorrenza l’intervento di commissari ad acta, l’Ue si ritrova di fronte al carattere fallimentare del suo modello di governance e, soprattutto, alla sua non universalizzabilità. Ma gli interessi di cui essa è frutto sono troppo forti perché si possa pensare ad un cambio di registro, per questo ha cominciato a sferrare continui colpi di coda nel tentativo di sopravvivere alla sua crisi strutturale.

Il PNRR è uno di questi: una misura di emergenza, legata alla pandemia in maniera del tutto pretestuosa, che sembra ribaltare la linea di austerity dei decenni precedenti ma che in realtà non fa che versare vino nuovo nelle botti vecchie, ossia punta il tutto per tutto su un’idea di sviluppo già esausta, al fine di salvare l’architettura ordo-liberale. Il piano avrà risultati risibili, mentre tragici saranno gli effetti per il Paese quando gli si chiederà il rientro dai debiti contratti. A Bruxelles lo sanno benissimo e per questo hanno deciso di allentare la morsa sull’Italia, abbandonando il progetto della sua omologazione agli standard teutonici e lasciando che gli italiani se la cavino da soli facendo «gl’italiani», ossia evadendo, chiudendo un occhio sulle regole, sfruttando il lavoro, insomma competendo al ribasso sul costo del lavoro e tramite il dumping sociale, come si addice ad ogni periferia che si rispetti.

È questo il patto con la destra (esplicito o implicito, poca importa): la cornice euro-atlantica viene posta come soglia invalicabile e variabile indipendente (con buona pace di tutte le velleità di fuoriuscita dall’euro, di critica delle istituzioni europee e delle logiche globaliste, in nome degli interessi del popolo), mentre all’interno il Governo ha carta bianca per abbassare le tasse agli autonomi, stracciare le cartelle esattoriali, de-tracciare il contante, permettere alle regioni del Nord di liberarsi del fardello meridionale, eliminare il reddito di cittadinanza al fine di svalutare ulteriormente il lavoro e allargare la fascia del nero, ecc…

Tutta la rabbia contro le strutture globali e le sue fantomatiche élite verrà progressivamente deviata verso una costellazione di altrettanto fantomatiche soggettività irregolari, che meglio si prestano a fare da capri espiatori cui attribuire il disagio dilagante (immigrati, poveri, ravers, studenti, omosessuali ecc.). All’Ue, dopotutto, interessa soltanto che il modello ordo-liberale non venga in alcun modo messo in discussione: certo, la standardizzazione del paese sarebbe la maniera migliore per conseguire questo obiettivo, ma se l’impresa si dimostra irrealizzabile, si passa al piano B, ossia a sedare la periferia.

Ora, la destra ha tutti i motivi per gioire del conquistato del potere. Ma questa vittoria ha un costo che rischia di esserle fatale, poiché blocca sul nascere il suo processo di transizione verso una soggettività politica post-neoliberale. Essendo passata subito all’incasso, avrà probabilmente difficoltà ad affrancarsi da un sistema di regolazione in inesorabile declino, ma che, appunto grazie ad un colpo di coda, è riuscito a metterla al proprio servizio.

Per l’Ue, impedire che le forze politiche (tutte, di destra e di sinistra) si rivoltino contro l’assetto regolativo (prepolitico) neo-liberale e facciano allusione ad altre possibilità regolative è la principale preoccupazione.

Con la destra italiana c’è riuscita. A sinistra l’operazione non è andata a buon fine. Pd e satelliti, pur avendo pagato l’esorbitante prezzo della rinuncia di fatto a competere con la destra, non sono riusciti a portare a termine la missione che era stata loro affidata: sterminare il M5S.

La parabola del movimento è davvero curiosa: da salvagente a spina nel fianco del sistema. È la creatura che ad un certo punto si è rivoltata contro il suo creatore (e non ci riferiamo né a Grillo né a Casaleggio). Nel 2013, tutti i media italiani a reti unificate hanno scatenato il M5S contro il mite Bersani, la cui ascesa al trono (del Pd e dell’Italia), coincidente con mutamenti simili in altri paesi europei, minacciava di mettere profondamente in discussione l’assetto ordo-liberale.

In maniera ricorrente, la debole borghesia italiana si serve di ribellisti d’accatto per impedire a forze, magari semplicemente riformiste e moderate, di intervenire sui meccanismi di governance che garantiscono il loro dominio.

Il M5S è diventato paradossalmente più pericoloso per il sistema dopo aver subito la normalizzazione governista, poiché a quel punto ha messo in campo tutta una serie di misure la cui logica cumulativa avrebbe condotto ad un sensibile spostamento degli equilibri di governance a marchio Ue. Il reddito di cittadinanza, ad esempio, è simbolicamente pernicioso poiché rende visibile la possibilità che il potere politico garantisca a monte l’esistenza sociale. Tutto l’impianto europeo è invece fondato sul dogma dell’auto-attivazione del soggetto: la politica può intervenire eventualmente solo a valle con qualche blanda misura di perequazione.

Allora, il bivio di fronte al quale si trova la sinistra è proprio questo: restare nell’idea – propria dell’inglorioso quarantennio neoliberale – secondo cui il posto della politica si trova (al meglio) a valle dello scatenamento delle forze produttive, in funzione puramente riparatoria; oppure osare riporre la politica a monte dei processi sociali, là dove si decide che cosa, come, per chi e per quali bisogni produrre. Questo è un bivio strettamente regolativo-istituzionale e precede l’identità politica propriamente detta.

Gli stessi valori, gli stessi contenuti e le stesse identità politiche cambiano completamente significato a seconda della forma regolativa nella quale vengono collocati. Per intenderci: buona parte di coloro che sono intervenuti prima di me in questo meritorio dibattito aperto da Pagina 21 hanno incitato il Pd ad una sorta di radicalizzazione, ossia a sposare in maniera più netta e decisa un’identità socialista democratica. Ebbene, al netto di tutte le possibili obiezioni storico-politiche e culturali che si potrebbero avanzare, questa opzione declinata dentro la griglia regolativa dell’ordoliberalismo europeo e della globalizzazione economica non significa pressoché nulla: la socialdemocrazia propriamente detta è, infatti, semplicemente vietata dalla struttura regolativa Ue e, dunque, si trasforma necessariamente in un generico richiamo a concedere a ciascuno (ciascun individuo) pari chance di auto-attivazione attraverso una serie di servizi e diritti (individuali) ed eventualmente a redistribuire qualcosa ex-post; giammai essa potrebbe alludere alla socializzazione dei mezzi di produzione (che è l’unico significato possibile della parola socialismo).

Il fallimento della strategia elettorale alle ultime legislative offre alla sinistra un’opportunità straordinaria, che ovviamente non coglierà, di uscire dal pantano. Occorre, innanzi tutto, prendere atto che dentro il quadro descritto, il Pd e i suoi satelliti, così come attualmente configurati, sono più spacciati che mai. Al progetto di società cui mirano non credono più nemmeno i titolari del modello. Ma se non siamo disposti ad affrontare il salto regolativo che il tempo richiede, ogni sforzo di ricostruzione si rivelerà una pura operazione di maquillage.


Sono interventi su questo stesso tema:
Oscar Buonamano, Costruire il campo dei progressisti, unire i riformisti, o che?
Gianfranco Viesti, Costruire un soggetto politico collettivo, radicato sui territori…
Giovanna Casadio, Appunti sulla sinistra
Leonardo Palmisano, Che cosa sognifica essere riformisti?
Antonia Carparelli, Un centro-sinistra europeo, oltre i personalismi
Piero Ignazi, Socialdemocrazia, l’ultimo treno per il partito democratico?
Gianvito Mastroleo, La scelta che tocca oggi al Partito Democratico

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