Per una riforma dell’Unione Europea

La guerra scatenata dalla Russia all’Ucraina ha cambiato il mondo. Si profila un nuovo assetto geopolitico nella forma di un nuovo duopolio fra Cina e USA. Un equilibrio in bilico pericoloso fra antagonismo commerciale, che può divenire militare con la questione Taiwan, e una convivenza competitiva. Del secondo scenario c’è segno nel più recente incontro fra Biden e XI Jinping.

Intanto, diventa sempre più attivo il ruolo di alcune potenze nazionali. La Turchia in primis. Mentre la vittoria di Lula in Brasile rafforza il coordinamento diplomatico con Cina, India, Sudafrica, la stessa Russia.

E l’Unione Europea?

Come si vede sui principali dossiers che incrociano le grandi opzioni strategiche è ferma o arriva assai lentamente a compromessi al ribasso fra i ventisette. Emblematico il caso del price cap sul gas russo.

Stenta a trovate ruolo di global player. Mentre la sua forza economica e demografica ne farebbe un attore essenziale dei nuovi assetti. Si pensi soltanto al suo primato degli scambi commerciali con la Cina. Epperò, al contrario di quel che chiede la svolta mondiale assistiamo al ripiegamento nazionalistico in molti dei suoi paesi.

Tendenza che include anche la Germania che si riarma, sostiene imprese e famiglie con 200 miliardi del suo bilancio per fronteggiare il caro bollette e con la missione del suo Cancelliere a Pechino consolida accordi commerciali con la Cina su auto e tecnologia. Questo atteggiamento fa nascere in molti il dubbio, data la capacità di ammodernamento tecnologico della Cina, che il Paese del dragone rischi di avere una posizione dominante su questi stessi settori oltre che sui porti tedeschi.

Su tutto l’assenza di una forte iniziativa diplomatica dell’Unione Europea per il cessate il fuoco nel conflitto in Ucraina che dopo 70 anni fa rivivere la guerra sul suolo del nostro continente.

La tragedia dei lutti fra le popolazioni, la distruzione delle città e delle infrastrutture in Ucraina, trascina la crisi ovunque, sia in tema di approvvigionamenti energetici sia in tema di accoglienza di profughi. Fattori di destabilizzazione della già provata coesione sociale della società della vecchia Europa.

Non vi è ancora consapevolezza che per il cessate il fuoco la misura è il compromesso, sulla scia di Helsinki.

Sostanzialmente: riconoscimento della sovranità dell’Ucraina, autonomia amministrativa e linguistica delle aree russofone, dispiegamento di forza internazionale di garanzia per la sicurezza di tutti con l’obiettivo della vittoria finale di uno dei due contendenti e l’escalation incontrollabile delle armi fino al rischio nucleare.

Per l’Europa la guerra ha accelerato la crisi.

Può essere esistenziale, disgregativa e ridurre aree geografiche e Paesi del Vecchio Continente a zone di influenza subalterna alle grandi potenze.

Come davanti ad alte gravi crisi avvenute nel suo passato, l’Europa è di fronte ad un bivio: crisi come declino o crisi come opportunità di nuovi traguardi.

Per sfruttare la seconda possibilità, la strada obbligata è quella delle riforme. Avviare con urgenza un percorso di riforma della sua architettura istituzionale. Che parta dalla derubricazione della accezione negativa con cui è stata bollata la parola sovranismo. La sua radice è infatti sovranità. E la sovranità dei Paesi europei è già stata limitata dagli effetti della «globalizzazione finanziaria senza disciplina».

Ma anche dalla asimmetria fra alcuni principi di tutela sociale delle Costituzioni nazionali e sentenze della Corte di Giustizia che li hanno misconosciuti. Nel caso italiano si è dovuti ricorrere alla Consulta per vedere riconosciuto che «la normativa europea può essere soggetta a sindacato della Corte Costituzionale in contrasto con principi inalienabili della persona umana e del lavoro».

In Svezia è avvenuto che secondo la normativa «del Paese di origine» una azienda che si insedia dalla Lettonia in Svezia può applicare i salari lettoni. Con esiti di svalorizzazione del lavoro, di concorrenza sleale fra imprese. Il ricorso del sindacato svedese alla Corte di giustizia è stato rigettato. Ciò spiega lo spostamento a destra del voto operaio in Svezia.

Riconoscere dunque il recupero di sovranità nazionale non significa però legittimazione del nazionalismo etnico, che è ben altra cosa. O dare alla Riforma la forma di una Confederazione di Stati nazionali. Giacché questo assetto aprirebbe a conflitti nei quali ci sarà sempre un nazionalismo più forte di altri. Con il risultato che neanche il nazionalismo più spinto e in grado di affrontare le sfide globali.

Allora quali risposte alla crisi Ue?

Gli Stati Uniti d’Europa, il sogno federalista di Spinelli oggi non è realistico. Non c’è un unico demos europeo, non vi può essere una unica Costituzione europea condivisa da popoli diversi.

Sono urgenti due decisioni.

La prima. Sostenere la proposta Macron avanzata in occasione del Rapporto finale della Conferenza sul futuro della Europa. Non affrettare con scorciatoie dannose la adesione di Balcani e Ucraina alla Ue.

Creare invece da subito una Comunità Politica europea a cerchi concentrici. E finanziare i Paesi richiedenti l’adesione al fine di adeguare i loro standard giuridici a quelli della Vecchia Europa. E non solo per lo Stato di diritto, anche per la legislazione sul lavoro e sul welfare. Evitando così nuovo dumping in aggiunta a quello subito dal primo scriteriato allargamento.

Secondo. Decidere di dare vita a cooperazioni rafforzate, prevista dai Trattati come per l’euro, fra paesi che volontariamente vogliono metter in comune politiche in materie strategiche: energia, fisco, difesa comune. Questa strada riaffiderebbe al nostro Paese il rango di grande paese fondatore e aprirebbe vantaggi competitivi molto importanti.

Il primo cerchio di una cooperazione rafforzata deve essere proposto a Spagna, Francia, Germania e deve caratterizzarsi come asse Euro Mediterraneo.

Metter in agenda governo dei flussi migratori, infrastrutturale logistiche (la via della seta), approvvigionamenti energetici, sostegno tecnologico per uno sviluppo sostenibile dei paesi dell’altra sponda. Oggi questo non solo è possibile, è necessario anche con la Germania.

Se nei decenni precedenti la Germania ha privilegiato l’asse est-ovest, oggi la guerra Ucraina e l’insediamento di Turchia, Russia, Cina in Africa obbliga ad una nuova politica di cooperazione con questa area nevralgica del mondo.

E l’Italia? Avrebbe ruolo riconosciuto. Non solo per vocazione storica e posizione geografica, anche come partner principale su campi che sono il futuro: scambio tecnologico, processi di formazione, complementarità produttiva per risparmio di beni scarsi come suolo e acqua, produzione agroalimentare.

La Cina acquista o fitta aree geografiche immense in Africa per la coltivazione a monocoltura del frumento e del grano. Quel Paese è passato dalla ciotola di riso al consumo di carne. Deve perciò importare queste derrate. Toglie si dalla fame più disperata le zone colonizzate, ma condanna quelle terre alla perdita di biodiversità e ad un modello di sovranità alimentare (produrre in autogoverno secondo criteri di sostenibilità ambientale). Quindi così si accentua climate chance, riscaldamento del Mar Mediterraneo, moria di pesci, alluvioni e devastazioni delle città delle coste. Italiane in primis.

Nella cooperazione rafforzata l’Italia porterebbe una sua specializzazione come quella sperimentata dal Ciheam (Istituto Agronomico Mediterraneo), sede italiana della Organizzazione di 13 Paesi delle due sponde che organizza master per quadri dirigenti dei paesi africani in economia sostenibile, offre tecnologie all’avanguardia per agricoltura di precisione in grado di programmare colture di risparmio idrico e di maggiore resistenza ai cambiamenti del clima.

Ecco alcune ipotesi di come una nuova visione globale può prendere le mosse da una nuova lungimirante classe dirigente europeista e da esempi di buone pratiche già operanti alla latitudine sud del nostro Paese. Un’altra dimostrazione che gli staterelli del Nord promessi dall’autonomia differenziata non rappresentano solo un danno per il Mezzogiorno, ma promette inesorabilmente il declino italiano. Nordismo compreso.

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