Peste, virus, pandemia: i rimedi della letteratura

Da Omero a Sofocle, da Tucidide a Lucrezio, la letteratura e la storiografia fin dalle origini hanno raccontato la catastrofe delle malattie pandemiche, prendendosi la responsabilità ermeneutica: narrare, interpretare, esprimere con l’arte della parola, cercando una via d’uscita, un motivo di speranza. Nell’Iliade (I, 61) Achille è convinto a combattere perché «guerra e peste insieme abbattono gli Achei»: il vate Calcante lo conferma. In Sofocle, Edipo re, scritto nel 430 a.C. poco dopo l’epidemia di peste che prostrò Atene, la scena si svolge in Tebe, afflitta dalla pestilenza che si rivelerà punizione per Edipo, che dopo aver ucciso, senza riconoscerlo, il padre Laio, re di Tebe, sposò la regina, Giocasta, sua madre. Giocasta si suicida, Edipo si strappa gli occhi, allontanandosi per sempre da Tebe. Giungerà a Colono accompagnato dalla figlia Antigone e sarà accolto da Teseo. Qualche dubbio sulla peste come punizione divina si trova in Lucrezio, De rerum natura, che muove la prima coraggiosa accusa alle superstizioni già dall’incipit, invocazione rivolta a Venere, l’alma Venus di fronte a cui sgombra la mente da tutti i crimini commessi in nome della religione: «Tantum religio potuit suadere malorum».

Più ricca la letteratura che crea “cornici” intorno alle storie della peste: quella del 1348 ha molta responsabilità nella nascita della novella come genere orale, dal Decameron del Boccaccio alle Novelle di Giovanni Sercambi (nato durante la peste di Lucca e morto di peste nel 1424), dal Novellino di Masuccio Salernitano con i suoi «putridi lazzaretti» e «Trionfi della Morte», a Sabatino degli Arienti con le sue Porretane, alle Novelle di Matteo Bandello: i salotti delle corti come le terme, le stalle come le piazze: tutte nascono in quanto storie che devono distrarre dal trionfo della Morte e della malattia nel mondo. Nel 1665 la peste arriva a Londra, come attesta il Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe (1772). Attraversare la peste sembra il motto dei commedianti della Commedia dell’Arte, che continuano a spostarsi in Italia, Francia, Spagna e resto d’Europa, sapendo di essere invisi alla Chiesa ma consapevoli anche del sollievo portato dal riso, dal comico, da tutto ciò che può intrattenere su una piazza facendo dimenticare la Morte. Nicolò Barbieri ne è un rappresentante significativo. Nato a Vercelli nel 1576, a vent’anni se ne andò per recitare nelle piazze, arrivando alla celebrità in Francia con la compagnia dei Gelosi, al servizio di Enrico IV, poi con i “Fedeli” di Andreini, al servizio di Luigi XIII. Tornò in Italia in varie tournées. Fu famoso nelle vesti di Beltrame, personaggio da lui creato. Dopo aver raggiunto grande fama con le sue commedie, si decise a mettere per iscritto il testo di quella più celebre, L’inavertito, la cui prima edizione è datata Torino 1629, la seconda 1630: sono gli anni in cui la peste arriva in Italia. Da questa commedia Molière trasse la sua, L’étourdi. Il “tipo” inventato dal Barbieri fu ripreso da vari autori francesi e inglesi e da Goldoni. Barbieri fu anche autore di trattati per rivalutare l’arte comica, come La Supplica (1634). Morì a Modena nel 1641.

La peste del Seicento, che arriva con i lanzichenecchi in Italia e si ripete a scadenze ravvicinate, è narrata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi e nella Storia della Colonna infame. La visione cristiana della letteratura legge la peste come un’occasione di riscatto morale, nella pietas esercitata da alcuni e nella espiazione vissuta dai malvagi, puniti ma perdonati. Ma non c’è solo l’etica cristiana, c’è anche l’Illuminismo del giovane Manzoni, che addita il populismo come irrazionale soluzione quando genera assembramenti, processioni religiose che spargono il contagio, imputato agli inesistenti untori. Dopo Manzoni tutto sembra chiaro sulla natura virale del contagio, ma ancora Jack London, grande scrittore per ragazzi e adulti, nel suo racconto La peste scarlatta (1915) lancia una profezia che trasforma il contagio in metafora: «A suo tempo verrà anche la polvere da sparo. Nulla potrà impedirne la venuta, poiché tutto si ripeterà. Gli uomini aumenteranno e poi si combatteranno. Quella polvere permetterà agli uomini d’uccidersi a milioni, e solo così, col fuoco e col sangue, tornerà a evolversi in un giorno lontano la nuova civiltà». Quella portata dalla polvere da sparo, capace di dissolvere, insieme ai cadaveri, tutta la civiltà, è la nuova peste che dilagando farà dissolvere tutto: resteranno solo le forze cosmiche e la materia. London profetizza come Giacomo Leopardi nel Cantico del gallo silvestre (1824), ma il poeta dà solo spiegazioni poetiche: «Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta […] un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi».

Chi sarà costretto a fare i conti con il colera, micidiale quanto la peste, sarà il giovane Edmondo De Amicis, che alla fine del 1886 dovette partire con le truppe per la Sicilia, per assistere i malati di colera: ne uscì una relazione: L’esercito italiano durante il colera del 1887, in «Nuova Antologia», marzo 1869. Giovanni Verga lo descrisse in una novella, Quelli del colera, in Vagabondaggio, 1887. Del resto, sappiamo di una più recente epidemia di colera, nel 1973, che toccò Campania, Puglia e Sardegna: il famoso vibrione, batterio del colera, entrò nel lessico degli italiani ma la malattia fu sconfitta in breve tempo.

Un romanzo significativo fu Le hussard sur le toit, di Jean Giono, 1951, che fa parte di un ciclo di sette romanzi sul colera in Provenza. Chi diede all’epidemia un carattere decisamente simbolico fu Albert Camus con il suo romanzo del 1947, La Peste. Si tratta dell’epidemia che scoppia a Orano, in Algeria, a causa dei ratti. Il dottor Rieux ne è protagonista, salva molti malati ma sa che quando tutto pare finito non si deve festeggiare, perché il bacillo della peste è sempre in agguato, non muore mai: Camus allude alla guerra e al fascismo. Una sorta di peste, un “mal bianco”, epidemia di natura simbolica che invade a poco a poco un’intera città è anche quella di José Saramago, Ensaio sobre a Cegueira, traduzione italiana Cecità, Einaudi 1996. I ciechi sono rinchiusi in un ex manicomio e lasciati in un totale abbrutimento, finché una donna riuscirà a penetrare là dentro fingendosi cieca per amore del marito e salverà tutti. Lo scrittore portoghese vinse il Nobel nel 1998, con grande contrarietà del Vaticano, grazie anche al nuovo romanzo, Tutti i nomi, in cui si parla di un Archivio il cui Conservatore decide di unificare il Registro dei vivi e dei morti. Ancora L’amore ai tempi del colera, di Gabriel Garcìa Màrquez (1985), in cui proprio l’epidemia che travolge tutti lascia liberi di amarsi i due protagonisti, ormai sciolti da ogni vincolo. Forse Mario Praz, nel suo libro La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica avrebbe aggiunto ancora un capitolo sulle scritture del coronavirus che affligge oggi la nostra vita, trovando materia per altre metamorfosi di Satana, altre bellezze medusee, altre perversioni e belles dames sans merci. Ma questa è una storia non ancora conclusa, e va studiata e raccontata alla fine, con sguardo attento e profondo.

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