La popolazione mondiale cresce in modo esponenziale, in Italia però sostanzialmente non aumenta, anzi non decresce solo grazie a politiche di accoglienza. Peraltro ha assunto caratteri e composizioni demografiche del tutto inedite. In termini quantitativi comunque saremo sempre più irrilevanti: già al 2020 siamo ridotti a meno dell’8 per mille della popolazione globale. Inoltre la nostra «terra di città» è eccezionalmente densa di diversità: siamo fra i paesi più urbanizzati in Europa: copertura artificiale 7%, quasi doppia rispetto alla media; fortemente condizionata da preesistenze fisiche, ma anche mentali e normative.
Negli ultimi 70 anni in Italia vi è stato un sostanziale ridimensionamento del settore primario; hanno assunto sempre maggior peso le attività industriali e terziarie: più di recente irrompe il digitale. Sono mutati quindi sostanzialmente abitudini e comportamenti: c’è esigenza di mixitè e per le tradizionali funzioni non è più essenziale l’unità di luogo. Crescendo l’esigenza di spostamenti (sia per frequenza che per dimensioni), gli abitanti da stanziali tendono a trasformarsi prevalentemente in nomadi, e non solo dentro i confini nazionali dove peraltro sono disponibili circa 5 milioni di posti letto non residenziali e si registrano 430 milioni di presenze all’anno, 15% delle quali per lavoro. Grande la quantità di seconde case, circa il 23% del totale, in prevalenza turistiche, ma in parte anche a disposizione di chi ha elevata frequenza di vivere fuori dalla sua residenza principale.
Oggi l’85% dei circa 8.000 comuni italiani ha meno di 10.000 abitanti e non di rado dovrebbe cercare nuove forme di unione e aggregazione: nell’insieme questi piccoli comuni accolgono il 30% della popolazione. All’estremo opposto, anche se improprie nelle perimetrazioni e di fatto per lo più sostanzialmente inattuate, 14 città metropolitane: impegnano il 15% del territorio nazionale; aggregano poco meno di 1.300 comuni; coinvolgono quasi 22 milioni di abitanti, oltre il 36% della popolazione totale.
Quando sono stati introdotti i piani regolatori la popolazione italiana era 1/3 dell’attuale e prevalentemente agricola (70%). Nel 1942, quasi raddoppiata, era ancora fortemente occupata nel settore primario (39%); oggi questa percentuale è dell’ordine del 5%. Quindi negli ultimi decenni sono cambiati comportamenti e abitudini e sono in irruente crescita dimensioni e frequenze degli spostamenti individuali: per lavoro, turismo e per ampiezza dei sistemi di relazione.
Migliaia di anni fa l’Homo Sapiens, diventando sedentario e meno nomade, ha dato origine a città e civiltà. È in altra forma, ma oggi appare sempre più nomade: non solo per frequenza e per ampiezza dei suoi spostamenti fisici, anche grazie a connessioni e rivoluzione informatica.
Nei territori si rafforza quindi l’esigenza di identità; di rapide ed economiche interconnessioni; di idonei luoghi per l’accoglienza: nasce il desiderio di “piani umanistici contemporanei” (felice espressione coniata da Patrizia Bottaro).
Ci sono esempi nel mondo che mostrano come una positiva metamorfosi della città reale sia questione di visione più che di risorse. Anche qui non è impossibile. Ne sono precondizioni: superare l’«era della ignoranza ingiustificata» (positivo che entro il 2023 sarà completata la Carta geologica d’Italia 1:50.000, ma non basta) e affrancarsi dall’attuale overdose di regole obsolete. Poi delineare strategie a tempi lunghi, almeno di scala metropolitana, al di là dei confini amministrativi, e impegnarsi in progetti di «luoghi di condensazione sociale» la cui concatenazione formi reti capillari, interconnesse, diffuse.
Questo un tentativo di sintetizzare in 7 punti azioni e temi che tendono ad un insieme virtuoso:
- processi partecipativi / la comunità, nuova frontiera dell’urbanistica;
- strategie che prescindono da confini e limiti: ecologiche, flessibili, porose, agili, rapide;
- infrastrutture materiali / immateriali; veloci, a basso costo, capaci di dare risposta alle aspirazioni all’ubiquità;
- dialettica costruito / non-costruito;
- città dei 5 minuti (Fragments / Symbiose);
- dai «non luoghi» ai «luoghi di condensazione sociale» (rete delle identità di 1°livello: «semi della metropoli»);
- Ambiente / Paesaggio / Memoria. Principi di relazione, non di autonomia come nella triade vitruviana.
Oltre 50 anni fa, il DM 1444/1968 ha introdotto l’obbligo di distinguere il territorio in zone omogenee e di assicurare il rispetto di standard urbanistici relativi a distinte esigenze funzionali: oltre agli spazi per attrezzature pubbliche di interesse generale, spazi pubblici per minimo 18 m² per abitante per ogni zona residenziale: per la metà «verde pubblico», 2 m² per «attrezzature di interesse comune», 4,5 per la «scuola dell’obbligo», 2,5 per «parcheggi». Diversi nelle varie «zone omogenee» ed in risposta a esigenze funzionali diverse, impropriamente omogenei nelle diverse realtà territoriali, nella prassi è possibile monetizzarli, per cui spesso di fatto insoddisfatti. Come passare da standard quantitativi a standard qualitativi?
La Risoluzione 12.01.2001 del Consiglio d’Europa raccomanda di «promuovere la qualità architettonica attraverso politiche esemplari nel settore della costruzione pubblica», mentre le costruzioni private devono rispondere all’articolo 42 della Costituzione («La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina […] i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale…»). Due impegni disattesi: peraltro presuppongono giudizi critici e valutazioni, mentre oggi l’ambizione è misurare tutto, con un’ossessione che ricorda Venerdì di Michel Tournier. In ogni caso norme e procedure attuali non solo sono farraginose e ritardanti, ma non assicurano né la «qualità esemplare» degli interventi pubblici, né la «funzione sociale» di quelli privati.
Benché difficili da definire, occorre quindi riflettere su principi della qualità urbana sostanzialmente fondati sullo spazio pubblico, cioè sul non-costruito che si relaziona con il costruito; occorre anche passare da risposte a singole esigenze funzionali, spesso apparenti, quando si materializzano in costruzioni che ingombrano il territorio anziché esaltare relazioni fra parti, a interventi che si fondino sul disegno degli spazi aperti, cioè quelli non-costruiti. Vale a dire che per articolare un’idea di città non occorrono edifici perfetti o esemplari, ma soprattutto interventi che apportino un dono al contesto e che contribuiscano alla creazione di spazi di libertà, di socializzazione, di relazione.
In un’ottica profondamente diversa da quella delle «unità di vicinato» (Clarence Perry, Neighbourhood unit, 1922) si può pensare che ogni abitante debba avere la possibilità di raggiungere agevolmente, sul principio della «città dei 5 minuti», un «luogo di condensazione sociale» che sia parte di una rete diffusa e interconnessa di «antenne territoriali», quando opportuno anche legate da navette ecologiche. Si tratta cioè di immaginare spazi pubblici, singolari / identitari / facilmente raggiungibili a piedi / ricorrenti, ma non replicabili / aperti, aggreganti ed essenzialmente pedonali, di riferimento per costruzioni destinate ad esigenze collettive primarie magari anche stratificabili nel tempo, spazi per la scuola dell’obbligo innanzitutto opportunamente integrati da elementi che facilitino la loro identità di centro civico (secondo le linee guida del DM 11.04.2013) e via via estesi a spazi per incontro, spettacoli, mediateca, ristoro, mercato, culto e così via. Quindi una rete diffusa di luoghi dell’incontro, dello scambio soprattutto di opinioni, quasi come gli agorà delle polis.
Si potrebbe avviare un processo nell’intero territorio, soluzioni appropriate nei diversi luoghi, con l’obiettivo di diffondere valori di città specie dove oggi prevale l’urbano. Questione forse più semplice nei centri minori, cioè nei due terzi degli attuali Comuni; difficile ma indispensabile nelle aree metropolitane. Dare senso a luoghi con oggi ne sono privi spesso impone di agire in contesti impropri ed ostili; specie nell’urbano non è operazione di routine. Obiettivo utopico, ma non impossibile. Presuppone la capacità di passare dall’era della separazione a quella dell’integrazione, di concepire ogni intervento come frammento dell’insieme. Presuppone il passaggio dalle logiche interne e autonome per ogni singolo intervento, sostenute dalla vecchia triade Utilitas / Firmitas / Venustas, a quelle di immersione, quelle che privilegiano le relazioni con Ambiente / Paesaggio / Memoria.
Parafrasando Antoine de Saint-Exupéry («se vuoi costruire una barca, non radunare uomini e donne e spiegare ogni dettaglio, dare ordini, indicare dove trovare ogni cosa […]. Se vuoi costruire una barca, fai nascere nel loro cuore il desiderio del mare») presupposto essenziale perché una città si trasformi è che i suoi abitanti abbiano forte desiderio di ambienti di vita che favoriscano socialità / economia / sicurezza / benessere/ felicità.
Leggi la prima parte della riflessione di Massimo Pica Ciamarra
Dalle città ideali a idea per la città reale