Nel primo episodio di Caro diario, Nanni Moretti gira in Vespa per le strade di una Roma estiva, tranquilla e poco trafficata. La macchina da presa lo accompagna, ne cattura fantasie, divagazioni e movimenti. Improvvisamente però la scena cambia. Nanni al bar sfoglia vecchi giornali, che danno notizia della morte di Pier Paolo Pasolini e dice a sé stesso: «Non so perché, ma non ero mai stato nel posto dove hanno ammazzato Pasolini».
Non può che essere questa la tappa ultima del suo girovagare, che non è solo fisico, ma anche e soprattutto esistenziale. Moretti è un artista, per il quale vale, a nostro avviso, quanto evidenziato da Alfonso Berardinelli nella sua prefazione all’edizione Garzanti degli Scritti corsari. Cioè la capacità di trascinarci in conflitti morali e politici che riguardano innanzitutto lui. Così la sua lunga passeggiata in Vespa si conclude all’Idroscalo di Ostia fra le spiagge gremite di bagnanti, le dune di sabbia, le fontanelle del Comune. Qui dietro una rete metallica, che in parte ne impedisce la vista, si scorge, circondato dalle erbacce selvatiche e inquadrato dai pali di una porta di calcio, il monumento funebre in pieno degrado.
La luce è piatta, le inquadrature sono volutamente dilettantesche, sembrano riprese da un osservatore qualunque. Non si odono parole. Risuonano soltanto le note del Concerto di Colonia di Keith Jarrett. Vengono così in mente le celebri Osservazioni di Pasolini sul piano-sequenza (Empirismo eretico), dove, come è noto, si stabilisce un nesso tra vita, morte e cinema. Si tratta senza dubbio dell’omaggio più giusto, pudico e commosso che il cinema italiano abbia mai reso al Poeta delle Ceneri, al suo discorso interrotto, alla sua voglia di stare in mezzo alle cose, di viverle in prima persona, non solo di raccontarle («era dappertutto con la sua passione di tutto», dice di lui un verso di Andrea Zanzotto).
Eppure, «in Italia, quando si parla di Pasolini, io sento che è un fatto morboso, non è un fatto d’amore per conoscere quest’uomo. Nessuno ha fatto una cosa veramente giusta per Pier Paolo. Nessuno». È quanto pensava Sergio Citti – uno che Pasolini collocava tra Sandro Penna e Alberto Moravia – in una intervista a Franco Maresco e a Daniele Ciprì, Pasolini secondo Sergio Citti (2001). Maresco – lo dimostrano i suoi film – è dell’avviso che l’unico modo per confrontarsi con Pasolini non stia nel ricalcarlo pedissequamente, ma nel seguire il consiglio che il Corvo di Uccellacci e uccellini dà a Totò e Ninetto: i maestri si mangiano in salsa piccante. Piccante, se possibile, per digerirli meglio.
In altre parole, attuare il procedimento di cui il Poeta è stato un maestro, quello di divorare chi ci ha preceduto in sapienza, intelligenza ed età: ingerire con il maestro anche il suo sapere e la sua forza: divorarlo per capirlo meglio. Nessuna morbosità, ma neppure nessuna agiografia, specie in tempi di spettacolari celebrazioni, che hanno reso Pasolini un mito trasversale, bipartisan, politicamente e passatisticamente corretto. Cosa del tutto respingente per uno che in Progetto di opere future scriveva: «Taci, taci, / voce di ogni ufficialità, qualunque tu sia. / Bisogna deludere».
«Se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini – ricordava Vincenzo Cerami – dalla prima poesia che scrisse quando aveva 7 anni fino al film Salò, l’ultima sua opera, noi avremo il ritratto della storia italiana dalla fine degli anni del fascismo fino alla metà degni anni ’70. Pasolini ci ha raccontato cosa è successo nel nostro paese in tutti questi anni».
Da Casarsa a Roma, da Ponte Mammolo a Donna Olimpia, dall’infanzia all’età adulta, la storia di Pasolini si intreccia con quella d’Italia, dal fascismo storico a quello dettato dal consumismo, dalla lotta partigiana alla democrazia repubblicana fino al torbido patto – torbido come il petrolio – tra politica ed economia. Pasolini attraversa ognuna di queste vicende con il suo corpo e con la radicalità del suo pensiero e lo fa in un’opera immensa (dieci volumi dei Meridiani), informe, incoerente, spezzettata in migliaia di frammenti, in cui la contraddizione è eretta a fatto stilistico. Un’opera capace di toccare tutti i campi della creatività, dalla poesia al romanzo, dal cinema al teatro, dal giornalismo alla lettura, facendoli, a volte genialmente, interagire e scontrare nella sua officina d’artista sempre aperta.
Pasolini prossimo nostro recita il titolo di un documentario di Giuseppe Bertolucci del 2006. Ecco Pasolini, al contrario di tanti maestri, non è stato tanto un padre, quanto un compagno di strada con cui dialogare, riflettere, persino litigare.
Detto di Nanni Moretti, pensiamo all’Ascanio Celestini di Museo Pasolini e al Fabio Condemi di Questo è il tempo in cui attendo la grazia. Per non parlare di Mario Martone che ha messo in scena una sceneggiatura di Pasolini, L’historie du soldat, in uno spettacolo con Ninetto Davoli, e le sue poesie nello splendido Una disperata vitalità di Laura Betti. Dialoghiamo con Pasolini, facciamoci accompagnare dalla sua voce sempre viva. Ci possono aiutare, oltre alla bibliografia sterminata, i podcast Perché Pasolini? di Walter Siti e Pasolini raccontato a chi non c’era di Paolo di Paolo.
E i documentari. Solo per citarne i più recenti: L’ultima partita di Pasolini di Giordano Viozzi, Il giovane corsaro di Emilio Marrese, sugli anni bolognesi tra il 1937 e il 1943, Pier Paolo Pasolini. Una visione nuova di Giancarlo Scarchilli, dove ci si sofferma su alcuni incontri decisivi per la parabola intellettuale di Pasolini con i grandi premi Oscar del cinema italiano: da Bernardo Bertolucci a Dante Ferretti, da Ennio Morricone a Danilo Donati. Testimonianze di una grande energia, di una quasi titanica esaltazione ero(t)ica, sia pure velata dalla consapevolezza di una tragedia ormai in atto:
«Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo di quello della cocaina, non mi costa nulla e ce n’è un’abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro… come andrà a finire non lo so».