Dieci anni fa, il 21 marzo del 2013, moriva Pietro Paolo Mennea: aveva 61 anni ed era nato a Barletta il 28 giugno del 1952. Muore in una clinica romana per una malattia incurabile.
Ho letto il libro di Pietro Mennea, La corsa non finisce mai, a pochi giorni dalla sua morte ed è stata un’esperienza dolorosa e insieme entusiasmante.
Dolorosa perché la medaglia d’oro di Mosca, in questo suo ultimo lavoro, fa ri-emergere i fatti e le ragioni dell’ostracismo nei suoi confronti da parte dell’establishment politico a capo del mondo dello sport italiano. «Fuori dal sogno faceva freddo» scrive il velocista azzurro in uno dei passaggi più significativi del libro, riuscendo a racchiudere in una sola frase tutta la sua vicenda, sportiva e umana.
Entusiasmante perché Mennea in prima persona racconta e condivide con il lettore la sua inimitabile carriera sportiva, ricca di successi e soddisfazioni personali e collettive.
«Fuori dal sogno faceva freddo» è un’espressione che accompagna e racconta, meglio di qualunque altra spiegazione, la carriera agonistica di Pietro Paolo Mennea, il più grande atleta dello sport italiano, unico uomo al mondo a disputare quattro finali olimpiche sulla stessa distanza, 200 metri. E racconta molto della sua vicenda umana.
«La mia terra è stata ed è amara, e non solo per l’atletica. Nascere a Barletta e ostinarsi a sognare ha comportato il pagamento di un prezzo altissimo: la solitudine. Mi sarebbe piaciuto continuare a vivere e a vincere nella mia città, tra la mia gente. Mi sono portato dentro un luogo della memoria che col tempo e la solitudine è diventato il luogo della mia anima. Ho pensato spesso a Barletta negli anni passati a correre in giro per l’Italia e per il mondo. Ancora oggi mi rendo conto che sono teso a cogliere ogni possibile occasione per rivederla, nonostante, con il passare degli anni, la gente si sia mostrata ingrata nei miei confronti».
Un atleta che ha iniziato a correre da ragazzo con un fisico che non prometteva niente di buono e in una città che non aveva neanche una pista d’atletica decente, è certo un uomo che ha grande coraggio, ma soprattutto una forza di volontà fuori dal comune. Forza di volontà che lo porta a conseguire oltre alle numerose vittorie sportive anche quattro lauree (Scienze politiche, Giurisprudenza, Diploma Isef e Scienze dell’educazione motoria, Lettere) e ad esercitare la professione di avvocato e dottore commercialista.
Il medagliere di Mennea è fin dall’inizio della sua carriera agonistica di primo livello, medaglia d’oro conquistata nei 200 metri ai Giochi del Mediterraneo del 1971. Da quel giorno tantissimi trionfi. Il bronzo alle Olimpiadi di Monaco del 1972, le due medaglie d’oro ai Campionati europei di Roma del 1974, 200 metri e staffetta 4×100. Il bis sul gradino più alto del podio, questa volta in due gare individuali, avviene ai Campionati europei di Praga del 1978, 100 e 200 metri. Poi nel 1979 a Città del Messico il record del mondo con quel 19’’72 che resterà per sempre impresso nella nostra memoria e che resisterà per diciassette anni. E poi la medaglia più ambita per qualunque atleta al mondo, la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mosca nel 1980.
«Le 48 ore della mia vita di cui vado più orgoglioso» scrive Mennea ricordando i giorni che hanno preceduto la vittoria olimpica con una narrazione che fa rivivere, attimo per attimo, tutto ciò che successe in quei giorni.
Non solo successi sportivi, ma anche grandi e gravi dissidi con gli uomini che gestiscono lo sport italiano. Come l’assurda vicenda successiva al trionfo dei Campionati europei di Praga del 1978.
«Dopo quelle dieci fatiche in sei giorni, per potermi riposare e puntare a risultati cronometrici importanti, chiesi di non partecipare alla successiva tournée in Oriente. Più che un valore agonistico, questa iniziativa perseguiva le mire elettorali di Nebiolo, ormai lanciato verso la conquista della poltrona di presidente della Federazione mondiale di atletica leggera. Come risposta mi fu negato il permesso a gareggiare e soprattutto di potermi allenare in Italia. Decisi comunque di non partire e per tale ragione, con provvedimento federale di sospensione, mi fu impedito di proseguire la stagione agonistica e ricevetti un’ammonizione con diffida […] Questo fu il premio per le mie dieci fatiche di Praga».
Un atleta vincente che non viene additato come esempio, ma che al contrario viene lasciato sempre più solo. E dopo l’affermazione più prestigiosa della sua carriera Mennea decide di ritirarsi dall’attività agonistica. Lo fa lasciando senza parole il suo allenatore, Carlo Vittori, che non può che prendere atto della sua decisione.
«Sono 15 anni che bevo solo acqua minerale, neanche frizzante, ma solo semplice; non ce la faccio più, sento il bisogno di riposarmi». Il suo riposo durerà poco, perché il velocista di Barletta tornerà presto a gareggiare e disputerà anche la sua quinta e ultima Olimpiade a Los Angeles nel 1984.
Ha vinto tanto, tantissimo, ma non ha ricevuto in cambio gli onori e i riconoscimenti che avrebbe meritato. Ha pagato per le sue idee e per le sue prese di posizione. Ha pagato la denuncia del doping in un mondo, quello sportivo, che è corrotto e inquinato fino alle sue propaggini più periferiche.
«L’ottava corsia amplifica la solitudine» scrive Mennea, quella stessa solitudine con la quale ha convissuto come atleta e come cittadino italiano. Quella solitudine a cui lo hanno condannato i capi dello sport italiano che non lo hanno mai ritenuto degno di poter svolgere un ruolo importante e apicale per lo sport italiano. È stato un campione di levatura mondiale, riconosciuto da tutti, e lo è stato innanzitutto perché è stato un grande uomo. «Non è tanto importante il risultato sportivo, almeno non quanto il risultato umano. Ciò che conta davvero non è vincere nello sport, ma vincere nella vita».
E certo la sua vita, seppur brevissima, è stata una vita che lo ha visto spesso vincere. Pietro Paolo Mennea un uomo contro il sistema e un’atleta vero, il più grande atleta dello sport italiano.
«Per ottenere tutto questo ho vissuto 5482 giorni praticamente come un frate trappista. Mi sono allenato a Natale e a Capodanno, a Pasqua, seguendo tabelle stilate con cura e magari aumentando i carichi previsti in esse, se mi accorgevo di non risentirne. Ho passato giorni e giorni da solo, a Formia, in pista la mattina, in pista il pomeriggio, un po’ di tv la sera e poi a dormire, senza una persona vicino. La mia casa era una stanza d’albergo, la mia famiglia i camerieri dell’hotel dove soggiornavo abitualmente. Quello era il mio rifugio. Ho disputato 528 gare, 419 individuali e 109 di staffetta. Ho vestito per 52 volte la maglia della nazionale».