Pino Daniele è nato a Napoli il 19 marzo del 1955 ed è morto, non ancora sessantenne, a Roma il 4 gennaio del 2015. Sono trascorsi dieci anni dal quel 4 gennaio e il dolore per quella morte è sempre vivo per molti, così come vivo è l’affetto nei suoi confronti, vivo è l’amore per la sua musica. Ciò accade perché Pino Daniele pur cantando il mondo che aveva davanti ai suoi occhi, come tutti i veri artisti, ha saputo cogliere quei caratteri di universalità che narrano la storia di ognuno di noi. Ha raccontato la storia del Sud e dei Sud all’inizio della sua carriera, dell’amore nella sua seconda vita artistica. Il 12 settembre del 2015, 8 mesi dopo la sua morte, lo ricordammo a Conversano, al festival Lector in fabula. Quello che segue è il testo che scrissi per quell’occasione.
Pino Daniele, unico e grande come Napoli
Napoli è una città nata capitale e che capitale, nonostante i tentativi di renderla marginale, resterà per sempre. Secoli di storia che l’hanno vista primeggiare in tutte le attività dello scibile umano hanno sedimentato nel corso degli anni saperi e conoscenze che hanno generato tante città, tutte racchiuse una dentro l’altra. Città che convivono a fatica, spesso in antitesi tra loro. Città popolate da una fauna umana che ha pochi eguali al mondo. Un popolo, quello napoletano, che rappresenta e svela le contraddizioni con le quali siamo costretti a convivere ogni giorno. Alto e basso. Colto e ignorante. Bello e brutto. Educato e maleducato. Legale e illegale. Consapevole e inconsapevole. Una capitale unica e generosa, come unici sono i tanti talenti che la città da sempre genera. Talenti che proprio dalle contraddizioni insite nelle tante Napoli presenti una dentro l’altra attingono energia e idee che si esprimono, esaltandosi, in vari campi della cultura, dell’arte, dei mestieri e delle professioni.
Unico è stato Eduardo De Filippo, così come unico è stato Massimo Troisi. Unico e inimitabile è stato Pino Daniele, figlio legittimo di Napoli. Un’artista capace di innovare profondamente la canzone partenopea coniugandola sempre alla sua vocazione, autenticamente, popolare. Una musica nuova che nasce da una contaminazione con il suono, il ritmo, i colori e la sensibilità della cultura mediterranea. Dall’incontro fecondo tra l’Africa e l’America.
Ha scritto, in quelle ore tristi di cordoglio e di emozione che attraversarono l’Italia intera, Lorenzo Jovanotti, «Napoli si riconosceva in Pino Daniele, l’artista che aveva saputo valorizzarla non attraverso le sue maschere ma partendo dalla realtà e dalla poesia, l’uomo che l’aveva liberata dagli stereotipi, che l’aveva portata nella modernità senza perderci in cultura e in umanità…».
I napoletani ri-conoscono Pino Daniele come uno dei migliori interpreti di una napoletanità senza tempo che tutti sappiamo esistere, ma che in pochi sono capaci di descrivere. Una napoletanità nuova e nello stesso tempo antica, alla quale Pino Daniele aveva saputo dare una forma compiuta in musica e parole già a diciotto anni quando compose uno dei suoi capolavori, Napule è.
«Non mi interessa se Pino non vivesse più a Napoli, nelle sue canzoni c’è Napoli, epicentro mondiale della cultura», sono le parole che Luigi De Magistris, il sindaco della città di Eduardo, facendo giustizia di tante stupidaggini che si sono lette in quelle drammatiche ore successive alla morte di Pino Daniele.
Non viveva a Napoli così come non viveva a Napoli Raffaele La Capria. C’è qualcuno che possa affermare che Raffaele La Capria sia meno napoletano dei napoletani che vivono a Napoli?
«Napule è a voce de’ creature che saglie chianu chianu, E tu sai ca nun si sule…» sono versi onomatopeici e se li associ alla musica che li accompagna sembra quasi di ascoltare la voce vera dei bambini del Pallonetto o del Cavone, il quartiere in cui, Pino Daniele era nato.
La morte di Pino Daniele ha portato via con sè un po’ di noi, della nostra gioventù, di ciò che eravamo e che siamo diventati anche grazie alle emozioni che le sue canzoni hanno saputo regalarci. Con lui è morta la spensieratezza di lunghi pomeriggi trascorsi a non far nulla, l’adolescenza appunto, il tempo che non conosce tempo. Ma chi è capace di rappresentare la bellezza così come l’ha rappresentata Pino Daniele, non può morire. Non muore mai.
«Terra mia fu scritta sul divano di casa a S. Maria La Nova 32. Le mie ambizioni erano quelle di scrivere canzoni come Luigi Tenco e suonare con i grandi chitarristi, a metà tra futuro e tradizione». Ciò che ci racconta Pino Daniele a proposito del suo primo disco da professionista, Terra mia è del 1977, si colloca tra l’antropologia culturale e la recensione musicale. L’affermazione iniziale, inoltre, ci informa che le prime canzoni nascono a casa sua, nel quartiere dove è nato, il Cavone.
Il Cavone è un quartiere del centro storico di Napoli, una piccola città nella città, come lo sono tutti i quartieri storici, luoghi identitari. E ogni luogo identitario ha il suo genius loci che indirizza e condiziona la vita dei suoi abitanti, soprattutto quella dei più sensibili, coloro che riescono a vedere e sentire ciò che i più non vedono e non sentono. Il genius loci di Napoli è il suo centro storico, una struttura urbana che sta per compiere trenta secoli di vita e che dal 1995 è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco con questa motivazione: «Considerando che il sito è di eccezionale valore. Si tratta di una delle più antiche città d’Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell’Europa e al di là dei confini di questa».
E Pino Daniele sintetizza al meglio le caratteristiche per le quali il centro storico di Napoli è diventato patrimonio dell’umanità. Le sue canzoni nascono e traggono ispirazione proprio da quei luoghi e dall’umanità che li abita e frequenta. E proprio come i tracciati delle strade di Napoli o la magnificenza degli edifici che la costruiscono, la sua musica, che attinge fortemente dalla tradizione musicale partenopea, è capace di essere universale. Ovvero travalica i confini del Cavone, conquista prima Napoli e l’Italia e poi supera i confini nazionali. E tutto avviene con sorprendente semplicità a partire proprio dalla lingua che Pino Daniele utilizza per scrivere le sue canzoni. Un napoletano/italiano che tutto il Sud comprende, ma che non è difficile capire anche al Nord perché aperto alla contaminazione. Anche i contenuti, i temi delle canzoni, seguono lo stesso percorso di trasformazione della lingua. Rappresentano in musica, rivendicazioni di diritti e libertà, stati d’animo e parlano di bellezza e amore in modo semplice e diretto in modo autenticamente popolare.
Ci si riconosce nelle liriche di Pino Daniele e il ri-conoscimento è interclassista. Si riconoscono il dotto e l’ignorante, il ricco e il povero, il bianco e il nero, il consapevole e l’inconsapevole, una ricchezza pari solo alla ricchezza e diversità dell’umanità che abita Napoli. E poi quei testi miscelati con la sua musica sono, nella maggior parte dei casi, onomatopeici e proprio per questo intuitivi e accessibili a tutti. Quando Pino Daniele canta «’e vecchie vanno dinto a chiesia cu’ a curona pe’ prià e ‘a paura ‘e sta morte ca nun ce vo’ lassà. Terra mia, terra mia, tu sì chiena ‘e libertà, Terra mia, terra mia, ì mò a siento ‘a libertà», sembra quasi di essere all’ultimo banco di una delle chiese del Cavone e di assistere alla messa mattutina dove arrivano, tremanti e confuse, le invocazioni e le preghiere dai primi banchi. Così come quando ascolti «appocundria ‘e chi è sazio e dice ca è diuno, appocundria ‘e nisciuno» non puoi non lasciarti andare e farti travolgere da sentimenti forti e contrastanti che quelle parole, quella musica, ma soprattutto quella voce, evocano.
La seconda affermazione, «Le mie ambizioni erano quelle di scrivere canzoni come Luigi Tenco e suonare con i grandi chitarristi, a metà tra futuro e tradizione», contiene la sua lezione musicale. Nuove melodie che attingono direttamente alla ricchezza musicale di Napoli e dell’intero bacino del Mediterraneo. Una contaminazione di generi che supera, anche in questo caso, i confini di Napoli e dell’Italia e recupera suoni dell’Africa e dell’America, reinterpretandoli. A metà tra futuro e tradizione, appunto.
L’epilogo della sua vita terrena, per molti inatteso, in ogni caso traumatico e repentino ha coinvolto emotivamente tantissime persone in tutto il Paese. Un intero popolo di appassionati di musica, gente normale che gli voleva bene e che ha affidato alla musica, al cantare le sue canzoni collettivamente in piazza o da sola in macchina, l’elaborazione di un lutto difficile da sopportare.
Resta la sua musica, restano le sue parole. Resta la bellezza che ha saputo creare, partendo dal divano di casa a S. Maria La Nova 32 e che ha saputo superare i confini di ‘o Cavone per arrivare prima a Napule è, poi da Napoli al mondo. In questo senso Pino Daniele non è morto, non può morire. Non morirà mai.