PNRR, ci vorrebbe un altro dono di Enrico Fermi

L’11 agosto del 1954, il fisico Enrico Fermi inviò una lettera al Rettore dell’Università di Pisa che segnò l’avvio della più significativa sfida tecnologica dell’Italia del Novecento, quella della costruzione di una «macchina calcolatrice elettronica».

All’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, le amministrazioni comunali e provinciali di Livorno, Lucca e Pisa avevano stanziato una somma pari a circa 150 milioni di lire per l’installazione, sul territorio toscano, di un elettrosincrotrone. Tuttavia, l’Università di Roma, offrendo un finanziamento di 400 milioni di lire, aveva ottenuto che lo strumento fosse costruito e installato a Frascati.

Si era presentata dunque la necessità di destinare il cospicuo finanziamento toscano a un altro progetto: a chi chiedere consiglio se non all’autorevole premio Nobel Enrico Fermi?

Nel suo ultimo soggiorno in Italia, Fermi aveva partecipato alla Scuola Internazionale di Fisica di Varenna e qui gli era stato chiesto un parere dai fisici Gilberto Bernardini, Marcello Conversi e Giorgio Salvini. Ben consapevole del valore che i calcolatori stavano assumendo nella ricerca scientifica, Fermi non aveva avuto alcun dubbio, aveva consigliato di puntare sull’elettronica e, per sostenere questa sua convinzione, aveva deciso di scrivere la famosa lettera al professor Enrico Avanzi, Rettore dell’Università di Pisa:

«[…] quella di costruire in Pisa una macchina calcolatrice elettronica mi è sembrata, fra le altre, di gran lunga la possibilità migliore. Essa costituirebbe un mezzo di ricerca di cui si avvantaggerebbero, in modo oggi quasi inestimabile, tutte le scienze e tutti gli indirizzi di ricerca».

Costruire, suggerì Fermi, non comprare.

Uno degli aspetti dell’Italia che lo aveva colpito maggiormente era stato il sempre più diffuso interesse per la ricerca scientifica, cosa che coinvolgeva anche gli enti pubblici e che implicava una ben accetta evoluzione scientifica e culturale del nostro Paese. Così, a Varenna, sul lago di Como, la questione dell’uso, del miglior uso, del denaro che una fortunosa commistione di eventi aveva reso disponibile per la ricerca, fu dibattuta e analizzata in una atmosfera di obbiettività e lucidità e nella quale l’idea di progettare e costruire una calcolatrice elettronica sembrò di gran lunga la migliore.

L’opinione di Fermi contribuì senza dubbio a rendere più rapide le deliberazioni del Consiglio di Amministrazione dell’Università di Pisa: fu così che nell’estate del 1955 prese il via il progetto della CEP, la Calcolatrice Elettronica Pisana. L’eseguire con estrema speditezza e precisione calcoli elaborati avrebbe creato ben presto una grande domanda e a questa si sarebbero aggiunti i sicuri «vantaggi che ne verrebbero agli studenti e agli studiosi che avrebbero modo di conoscere e di addestrarsi nell’uso di questi nuovi mezzi di calcolo».

Non si sapeva ancora cosa fosse l’informatica e quale futuro presagiva, ma questa fu l’autorevole e lungimirante opinione di Fermi, il suo ultimo dono all’Italia (la sua improvvisa morte avvenne a fine novembre del 1954), la sua eredità per la costituzione di una fucina di menti, di idee e di iniziative.

Sempre nello stesso anno, in ottobre, al Centro di Calcoli Numerici del Politecnico di Milano, il ricercatore trentunenne Luigi Dadda aveva fatto installare la CRC 102A progettata in California presso la Computer Research Corporation (da cui il nome della macchina). Dadda, che aveva partecipato negli Stati Uniti alla sua costruzione e si era lì formato per imparare a programmarla, era rientrato in patria con la stessa nave che trasportava la sua CRC, costata 120.000 dollari ottenuti grazie ai fondi del Piano Marshall.

Nell’ottica della ripresa economica post-bellica, il piano Marshall prevedeva che si potessero utilizzare i fondi purché si rendesse disponibile la macchina anche al mondo delle industrie italiane: il Centro di Calcolo del Politecnico di Milano nacque quindi con la doppia missione di prestare competenze tecnico/scientifiche al mondo accademico e fornire alle aziende servizi di calcolo. Oltre che per le attività di ricerca universitarie, ne usufruirono utenti esterni quali il Gruppo Edison per la soluzione di equazioni algebriche lineari necessarie per la costruzione di grandi dighe, la Magneti Marelli, la Pirelli per la determinazione dei campi elettrici passanti per cavi ad alta tensione, la Siemens, nonché gli Osservatori di Brera, Merate, Pino Torinese, l’Ismes di Bergamo e il Cise.

A Roma, all’Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo del CNR, costituito grazie alla volontà del matematico Mauro Picone, la scelta cadde sul Ferranti Mark I*, parzialmente finanziato dal CNR e in parte con i fondi del piano Marshall, per un totale di 300 milioni di lire. Tra i progetti più importanti realizzati all’INAC, vi fu sicuramente quello relativo ai calcoli per la costruzione della diga del Vajont che implicarono la risoluzione di un sistema di 208 equazioni lineari algebriche. Nello sbarramento delle acque montane bisognava tener conto di numerose variabili e calcolare con precisione estrema la pressione esercitata sulle pareti dall’enorme massa d’acqua. Al Ferranti Mark I* occorsero poche decine di ore (invece di anni-uomo) per fornire i risultati corretti, tanto che la diga tenne benissimo alle sollecitazioni causate dalla frana del monte Toc che, il 9 ottobre del 1963, sprofondò nell’invaso producendo l’onda che provocò la nota tragedia.

Sulla scorta del piano Marshall, degli investimenti per le infrastrutture, della crescita dei consumi, le menti geniali e lungimiranti italiane riuscirono dunque a trasformare un territorio devastato dalla guerra. I contesti di oggi sono sicuramente mutati, ma appare evidente agli occhi di chiunque che il nostro Paese, grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha di fronte la grande opportunità di compiere un passo avanti nei processi di modernizzazione economici, scientifici, culturali. Ci si aspettano importanti e positive ricadute in un Paese nel quale si ripercuotono squilibri messi in evidenza in modo drammatico dalla pandemia: contraddizioni, disuguaglianze, divari infrastrutturali, sociali e di genere.

Auspichiamo pertanto nuovi modi di fare ricerca, ci auguriamo una riforma del sistema scolastico per evitare i troppo noti fenomeni di dispersione, speriamo che siano maturi i tempi per il passaggio a una nuova era tecnologica.

Forse, servirebbe una figura chiave come quella di Fermi, un altro suo illuminato consiglio, un suggerimento per aprire una nuova frontiera nel mondo scientifico nazionale, per indirizzare questi fondi a un «mezzo di ricerca» dal quale potrebbero trarre vantaggio anche «tutte le scienze e tutti gli indirizzi di ricerca».


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