Policrisi, la sfida che l’Europa non può perdere

L’Europa si trova al bivio di scelte decisive per il suo futuro. Due su tutte: come tutelare e rilanciare il proprio modello di sviluppo, che comprende il welfare; come affermare una propria autonomia strategica, che non sia indipendenza dagli Stati Uniti, ma che sostanzi una propria capacità di azione nel contesto geopolitico e una propria visione della sicurezza. Diceva Jean Monet, uno dei padri dell’Unione: «L’Europa si fa nelle crisi». Ancora oggi questa sembra la posta in gioco.

Ma l’Ue appare frammentata, frenata da mediazioni continue tra i governi, che producono spesso compromessi al ribasso che alla fine la indeboliscono. Eppure, la comunità europea si trova di fronte ad una svolta storica, che si può riassumere in una parola: cambiamento.


Il contesto esterno e quello interno si stanno trasformando radicalmente e velocemente. Gli studiosi hanno un termine per definire questo groviglio di mutamenti: policrisi.

Con questa nozione definiscono crisi di diversa natura che si sovrappongono, interagiscono, s’intersecano. La conseguenza è un contesto d’incertezza che impaurisce, disorienta, e che destabilizza le democrazie. L’intreccio delle crisi attuali vede due guerre ai nostri confini, Ucraina e Medio Oriente; conflitti politici con paesi illiberali come l’Ungheria; tensioni commerciali che Trump potrebbe aggravare con una politica dei dazi; la trasformazione dell’economia e della globalizzazione; il cambiamento climatico che causa eventi estremi sempre più frequenti, come in Spagna e Italia; la transizione verde che può salvare l’ambiente e recare una nuova redditività, ma che potrebbe acuire la crisi di comparti industriali come quello dell’auto; le grandi migrazioni che investono il continente. Questo intreccio di eventi forma uno scenario nuovo in cui l’Europa fatica ad adattarsi.

La dinamica delle policrisi comporta che crisi differenti possono essere esacerbate l’una dall’altra: durante la pandemia del Covid, ad esempio, la crisi sanitaria ha innescato una crisi economica. L’interconnessione può suscitare effetti a cascata non facilmente prevedibili. Si materializza una sorta di geometria variabile delle crisi. E il fatto che si tratta di crisi multidimensionali accresce la complessità sociale, rendendo più difficile identificare le cause, più arduo trovare soluzioni che non provochino conseguenze indesiderate in altri settori. Il risultato è l’incertezza continua, che richiederebbe una gestione coordinata, tempestiva, una diagnosi condivisa dei problemi. Ma proprio su questo terreno la frammentazione che divide l’Europa, con i governi che hanno interessi e obiettivi diversi, rischia di far fallire la comunità. Occorrerebbero riforme, ma l’Europa sembra disunita anche sui sistemi di valori e sull’ideologia per cui le nazioni appaiono muoversi dentro «strutture stabilizzate di instabilità» (K. Heidemann, Combating crises from below: social responses to polycrisis).


L’incertezza non penalizza solo le istituzioni. Colpisce anche la società europea. Le opinioni pubbliche spesso non riconoscono alle élite, economiche e politiche, la legittimità di esercitare una funzione di guida. I gruppi sociali non formano solide constituency, vale a dire gruppi sociali definiti da rappresentare. I soggetti collettivi non sembrano in grado di mobilitare valori, aspirazioni, visioni condivisi che si esprimono con una voce. Le reti sociali di fiducia sono logorate dal primato della competizione. Il legame della politica con la società si è indebolito e traduce la crisi sociale in una crisi delle democrazie. Del resto, la stessa protesta non avviene per cambiare in vista di un progetto, piuttosto sembra esprimere la rabbia di essere defraudati di qualcosa. È un rancore, che tende a riappropriarsi di ciò di cui si sente di essere stati privati, più che un’azione per affermare un’idea di futuro.

Il nesso che si era instaurato dopo la Seconda guerra mondiale tra la crescita della ricchezza e la sua distribuzione, non funziona come in passato. La ricchezza collettiva attraverso la fiscalità non riesce a trasformarsi in un aumento adeguato dei salari, dei servizi, dei diritti. Si aggravano le diseguaglianze, approfondite dagli anni dell’egemonia liberista. L’inflazione, oggi in calo ma non vinta, ha fatto lievitare i prezzi come in Usa, ha colpito le fasce più fragili della società, ma ha ridimensionato pure i guadagni delle famiglie a medio reddito, favorendo una percezione comune di perdita di potere d’acquisto e di impotenza. Il malcontento, la polarizzazione, la domanda di protezione si sono diffusi e scuotono il modello sociale europeo. Lo scontento ha reso più vulnerabili le democrazie del continente.


L’instabilità politica ha due centri nevralgici: Parigi e Berlino, vale a dire l’asse attorno al quale ha ruotato fin dagli anni Sessanta l’Unione Europea. L’onda d’urto della paralisi dei due governi ha bloccato il motore dell’Ue. Francia e Germania hanno sistemi politici che, per quanto differenti, sembravano in grado di garantire la stabilità. In entrambi i casi l’idea di fondo era un bipolarismo con alternanza al governo. In Francia con l’elezione diretta del presidente della repubblica dotato di forti poteri di condizionamento; in Germania con lo sbarramento elettorale al 5% e la sfiducia costruttiva per far cadere il governo. Oggi la Germania vive una difficile situazione economica, è in recessione, il cancelliere Scholtz è stato sfiduciato, il sistema politico è minacciato alle elezioni di febbraio dalla destra estrema. La Francia vive anch’essa una situazione economica difficile, con un deficit pubblico doppio rispetto ai parametri europei, e un sistema politico che per ora non riesce ad esprimere una maggioranza di governo, costringendo i partiti a un negoziato che non fa parte della loro cultura. Occorrerà attendere le elezioni nei due paesi, ma l’equilibrio politico dell’Europa potrebbe inclinarsi più a destra.

In Germania il vincolo costituzionale pone un freno al debito pubblico. La Spd avrebbe ampi margini di bilancio per rispondere ai bisogni sociali, ma è stata fermata dalla Corte costituzionale. In Francia è stato costruito un sistema sociale generoso, che adesso è difficile e impopolare tagliare o conservare aumentando le tasse. L’instabilità non produce governo, apre spazi ai populismi e alla destra estremista.

Nell’agenda pubblica si è imposto il tema di una insicurezza generalizzata. L’ansia non concerne solo le condizioni di vita più precarie o l’instabilità politica all’interno dei paesi, ma è evocata anche dalle due guerre ai confini. L’insicurezza è determinata dall’intreccio di crisi interne ed esterne, che trasmettono una percezione di vulnerabilità generalizzata. Il sociologo Baumann ha parlato di una «sindrome Titanic» ne La società dell’incertezza: i passeggeri sarebbero terrorizzati non solo dall’iceberg, ma soprattutto dalla mancanza di apparati di sicurezza sulla nave. La globalizzazione guidata solo dal mercato ha costruito una società aperta, ma ha avvertito Baumann, anche «esposta ai colpi del destino». La paura è diventata la valuta dominante di questi anni. Ora il bis della von der Leyen è nato dall’accordo tra popolari e socialisti. Ma dopo il rafforzamento delle destre radicali alle elezioni europee, il partito popolare si è mosso per allargare la maggioranza all’area di destra ritenuta più moderata, innanzi tutto Fratelli d’Italia della Meloni. Si delinea una maggioranza europea dai confini incerti, dall’identità politica cangiante, mentre il partito popolare potrebbe appoggiarsi di volta in volta a destra o a sinistra. In questo quadro le divergenze possono aumentare, le alleanze diventano più precarie, il governo della policrisi, già di per sé difficile, può risultare meno efficace. In questo modo l’instabilità istituzionale e l’insicurezza sociale si connettono e innescano nuovi rischi per le democrazie.


L’elettorato disorientato, che vede inevase le proprie domande, mostra una crescente insofferenza. Nei paesi si sta creando una correlazione evidente tra le diseguaglianze prodotte dalla trasformazione economica, tecnologica e l’indebolimento delle strutture democratiche. Non ci sono solo le diseguaglianze di reddito, che pesano. Si è creato un divario tra i settori sociali che non hanno paura del cambiamento, perché lo considerano un’opportunità di crescita cui possono partecipare (gli inclusi), e i ceti che invece temono una discesa nella scala sociale, una marginalizzazione, un impoverimento, e percepiscono i cambiamenti come una minaccia (gli esclusi). Il confronto tra gruppi sociali con aspettative opposte, si sta trasformando in uno scontro tra svantaggiati e vantaggiati. Un’altra percezione che contribuisce all’insicurezza, perché configura una gerarchia di potere sociale, nella quale per molti si riduce la possibilità di migliorare la propria posizione come in passato.

Il problema è che si assiste anche all’indebolimento della condizione intermedia, un pilastro della stabilità. La forma della società, secondo alcuni studiosi, oggi somiglia a una clessidra in cui la sabbia della bolla centrale degli inclusi scivola verso il basso degli esclusi, che si allarga. Gli spaventati così tendono ad essere più numerosi dei fiduciosi. Questo sentimento d’insicurezza può debilitare il senso di appartenenza alla democrazia. Emerge poi un’offerta politica con la moltiplicazione di partiti e di aspiranti leader pronti a cavalcare ogni risentimento pur di conquistare consenso. Una pressione che contribuisce all’instabilità delle istituzioni, ormai continuamente contese. Così l’economia diventa terreno privilegiato per comprendere le sfide che attendono l’Europa.


Il quadro che l’Ue ha davanti è deludente. Negli ultimi tre anni il Pil degli Usa è cresciuto in media del 3 per cento l’anno, la Cina del 5%, mentre l’area Euro cresce intorno allo 0,9%. Anche per l’Italia le stime sono al ribasso: quest’anno si prevede un Pil sullo 0,4-05% e nel 2025 dello 0,8. Per tutta l’Europa l’imperativo è tornare a crescere. Ma come mentre si annuncia la crisi del grande comparto dell’auto? Si rende necessario un cambio di paradigma. L’Ue deve tornare a crescere non solo per distribuire reddito ai suoi cittadini, ma per sostenere il suo modello sociale e non essere costretta a ricorrere a tagli di spesa, costosi dal punto di vista sociale ed elettorale. Ma per crescere l’Ue deve cambiare.

Su questo tema è arrivata la scossa del rapporto sulla competitività di Mario Draghi. Gli economisti indicano varie cause alla base della stagnazione. La questione fondamentale però riguarda il modello di sviluppo: l’economia europea è export-led, guidata cioè dalle esportazioni, che potrebbero non crescere più . Fino a pochi anni fa le nostre imprese potevano penetrare in molti mercati, Cina compresa, utilizzando il differenziale di qualità e di tecnologia dei nostri prodotti. Oggi questo vantaggio competitivo è di fatto annullato. La Cina esporta prodotti di buona qualità a costi contenuti (anche grazie a sovvenzioni statali), nello stesso tempo ha ridotto la propria dipendenza dai mercati esteri. In alcuni settori la Cina primeggia nelle tecnologie più avanzate, come nell’auto elettrica o nella produzione di robot. La quota di produzione manifatturiera mondiale della Cina è passata dal 5% del 1995 al 35% di oggi e non si intravvede un mutamento di rotta. Trump spera di usare più di Biden l’arma dei dazi, ma la partita sarà tutta da giocare. Quello che si può prevedere è che l’Europa e l’Italia, anche se riusciranno ad esportare i propri prodotti negli Usa e in Asia, non possono sperare che l’economia sia ancora trainata dalle esportazioni.

Allora da dove può arrivare la crescita? Secondo il rapporto Draghi, dobbiamo puntare su una crescita endogena, trainata dalla domanda interna, che dipenda meno dall’esterno. E occorre riattivare gli investimenti pubblici e privati. Il nostro vantaggio competitivo dovrebbe provenire dalla capacità di investire nella ricerca scientifica e tecnologica. L’Ue rappresenta un mercato di circa 500 milioni di persone (il 5,6% della popolazione mondiale), è ricco, può contare su un risparmio privato elevato, ha una forza lavoro istruita, produce il 17% del Pil mondiale. Ma soffre di limiti non indifferenti: è un mercato frammentato, soggetto a sistemi normativi differenti, che frenano i capitali e i servizi (uno dei settori più promettenti) tra i paesi. Soprattutto il modello è fondato sulla bassa crescita dei salari (sia pure con differenze tra paesi) come fattore competitivo internazionale. Inoltre, la dimensione delle imprese è ridotta rispetto alle enormi sfide globali. L’innovazione procede lenta. E la produttività ristagna. Secondo alcuni dati, la produttività negli Usa dalla crisi del 2008-09 è cresciuta del 30 per cento, più di tre volte il ritmo dell’Eurozona.

Per reagire occorre una svolta. L’Ue, cioè, deve cambiare il modello produttivo puntando sulla domanda interna. Da notare che la dinamica export-led ha richiesto la flessibilità, che ha compresso i salari, mentre la crescita guidata dagli investimenti pone il problema opposto di un aumento della produttività, attraverso la riqualificazione dei lavoratori. L’austerità, difesa soprattutto dalla Germania, era coerente con il modello export-led, che si basava sul contenimento dei costi e dei salari per competere (con differenze tra i paesi). Per questo, ha avvertito Draghi, occorrono investimenti comuni, che vuol dire: ricorrere al debito comune per investire e restituire spazio alle istituzioni sovranazionali, cioè a decisioni condivise frutto di una migliore integrazione tra paesi. Per esempio: finora l’Europa è stata guidata dal principio di garantire la libera concorrenza, ma adesso la priorità dovrebbe essere creare campioni europei che per dimensioni sono in grado di competere a livello globale con i colossi americani e cinesi. L’Europa non deve solo crescere per cambiare. Deve cambiare per crescere.


Se occorre un cambio di paradigma, la questione cruciale diventa come risponderanno i governi e le istituzioni europee. L’Ue, ha ammonito Draghi «esiste per garantire che gli europei possano sempre beneficiare dei diritti fondamentali. Se l’Europa non può più fornirli ai suoi cittadini, o deve scegliere tra l’uno e l’altro, avrà perso la sua ragion d’essere». L’Europa è alla ricerca di una nuova identità. Ma quale maggioranza guiderà questa ricerca? Quella sancita dall’accordo tra partito popolare e i socialisti? O quella allargata alla Meloni, che la von der Leyen ha favorito per far votare la sua commissione?

Il responso sarà determinante. Per esempio, la presidente della commissione ha già avvisato i governi che intende rivedere le regole sull’immigrazione: riesaminare i criteri per la lista dei paesi sicuri e studiare i centri per migranti in paesi esterni (modello Albania). Con la Germania che potrebbe avere presto un Cancelliere del Ppe, l’esito potrebbe essere una politica che legittima le scelte della destra e quelle in Italia della Meloni. Ma i progressisti che cosa sono in grado di proporre di diverso per governare il fenomeno?

Emergono altri temi: l’Ue dovrebbe recuperare un ruolo nello scenario internazionale per contribuire al nuovo ordine globale. Per riuscirci dovrebbe investire nella sua difesa militare e nelle tecnologie connesse, per rafforzare la sicurezza e consolidare la pace, sapendo che confina con la Russia che in Ucraina ha riscoperto una vocazione neo-imperiale. Dovrà, cioè, elaborare una strategia autonoma dagli Usa senza distaccarsene. Ma Usa e Cina sono attori unici, l’Ue è plurale. Dovrà poi sostenere il suo modello sociale, nel quale equità, inclusione, riduzione delle diseguaglianze, siano preservati e rafforzati.

L’Europa dovrebbe auto-riformarsi, ma resta sospeso il quesito su quale maggioranza contare per quale identità. Cosa immagina la destra ormai è noto. Ma i progressisti sapranno far sentire la loro voce e avanzare ai cittadini una proposta credibile? È la sfida che l’Europa non può permettersi di perdere.

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