il costruito
Sappiamo bene che la qualità degli ambienti di vita incide in maniera sostanziale su salute, sicurezza, benessere, economia, felicità … Se e quando entrano in conflitto, devono essere chiare le priorità: l’incredibile immagine della sede (2015) della BCE a Francoforte è emblematica delle distorsioni attuali. Il fatto che in questo periodo la maggioranza dell’umanità sia confinata, che gli aerei non volino, che le fabbriche siano chiuse, sta riducendo ogni forma di inquinamento, sta rapidamente ridando spazio ad altre forme di vita che impropri comportamenti umani avevano soffocato alterando equilibri essenziali.
Il Post-Antropocene sarà vero quando vivremo tutti ambienti confortevoli; quando le città esprimeranno di nuovo civiltà, com’è nella radice delle due parole. Le “città” sono sempre state meravigliose espressioni dell’intelligenza umana. La rivoluzione determinata dai mezzi di trasporto e dall’automobile le ha corrose e distrutte. Ha reso non di rado invivibili quelle che c’erano ed ha prodotto il dominio dell’“urbano”, sinonimo di dispersione e assenza di relazioni. Siamo soffocati dalla crescita urbana insulsa e da periferie che non è certo possibile “rammendare”: impongono mutazioni sostanziali. Nel Post-Antropocene vivremo in città adeguate ai nostri tempi (dimensione demografica / connessioni / produzione di multipli), avremo trasformato l’“urbano” in “città”, domineranno le logiche di relazione per far sì che ogni elemento dialoghi con quelli finitimi, che ogni intervento non si compiaccia della sua autonomia ma sappia essere frammento dell’insieme. Cambiare mentalità significa condividere nuovi criteri di valutazione: meno «utilitas / firmitas / venustas», più «Ambiente / Paesaggio / Memoria»; meno autonomie, più logiche di relazione e di aggregazione. Rispetto a quanto oggi è prassi, una vera rivoluzione deve coinvolgere il costruito.
Il Decreto che impone di non muoversi dalla propria casa fa anche riflettere su come è si andata evolvendo l’idea stessa di casa. C’è stato un lungo periodo durante il quale alcune funzioni non hanno avuto più necessità di svolgersi negli alloggi, le loro superfici si sono andate riducendo verso il cosiddetto essenziale. Il social housing crea servizi comuni a più alloggi, favorisce incontri e socialità, a volte però costringe. Il Covid-19 spinge a ripensare l’alloggio perché assicuri la possibilità di isolarsi in condizioni attive e piacevoli, e anche di partecipare ad azioni comuni stando ciascuno di per sé … Gli alloggi vanno quindi ripensati e affrancati dalle riduzioni proprie delle ricerche sull’existenz minimum. In questo periodo si è ben capito come sia essenziale – irrinunciabile – dotarli di una loggia o comunque di un vano aperto abitabile. Inoltre – e non solo per le abitazioni – acquisito il requisito nZEB (Nearly Zero Energy Building), va ancora maggiormente incentivata la sperimentazione di logiche di areazione naturale e la rinuncia all’aria condizionata. Per gli ambienti confinati si rafforza il tema della difesa dai tanti pericoli dell’indoor.
Oggi gli edifici per lo più si isolano, puntano ad ottimizzare le loro prestazioni. La Carta del Machu Picchu (1977) – sostanzialmente diversa da quella di Atene (1933) che classificava, distingueva, separava – ha auspicato prime forme di dialogo fra gli edifici. Una futura Carta (2020?, meglio se priva di luogo) potrebbe sancire la fine delle autonomie e la vera svolta, quella che privilegia relazioni e connessioni fra le parti per far sì che gli ambienti di vita siano il vero scopo del costruire, non più le immagini anche se fascinose di una singola costruzione. Non più distinta dall’edilizia, l’architettura deve assumere nuovi significati, cambiare senso: Architecture without Architects (Bernard Rudofsky, 1964) apriva una prospettiva, è stato un titolo di successo. Altrettanto provocatorio è stato Architecture without Building (Yona Friedman, 2012). Ma Architecture without City non sarebbe provocatorio, sarebbe inconcepibile. Senso del costruire è contribuire a formare città/civiltà, definire parti – frammenti – che creino condizioni di aggregazione e socialità. Il Covid-19 ha spinto 60 milioni di italiani a non uscire dalle loro case, ma in moltissimi luoghi – nel nord come nel sud – ciascuno dalla sua casa – sui tetti, sui balconi, dalle finestre – ha dialogato con altri, ha cantato, ha contribuito a fare musica insieme: ma ciò non è stato possibile ovunque, perché non dovunque esistono condizioni di città.
Città e spazio pubblico
La città del futuro deve tornare a privilegiare il non-costruito, spazi di relazione, spazi pubblici aperti sempre disponibili per tutti: che interpretino morfologia e condizioni naturali, che utilizzino strategicamente il mondo vegetale intrecciandone la vita con quella degli abitanti riportando l’attività agricola in ambito urbano, non solo a scala maggiore, ma anche tramite orti urbani e sistematica copertura a verde del costruito. La città nasce come luogo di condensazione sociale: nella contemporaneità e nel futuro non può che essere rete di «luoghi di condensazione sociale»: va garantito ad ogni cittadino di poterne raggiungere agilmente almeno uno. La «città dei 5 minuti» tende a un’organizzazione che espella le auto dalla città, magari avvalendosi di sistemi di «accelerazione pedonale» o di navette ecologiche (elettriche / a idrogeno). Ha radici lontane.
Ci sono alberi che affondano grandi radici nel sottosuolo ed al tempo stesso con lunghe e sottili radici in aria. Ai primi febbraio, non si aveva nemmeno il sospetto che Covid-19 potesse invadere l’Europa– a breve distanza l’una d’altra la notizia che il sindaco promette di trasformare Parigi in «città dei 15 minuti» e quella che Nordhavn (Copenhagen) realizza la città sostenibile del futuro basata sul principio della «città dei 5 minuti» e su navette ecologiche. Sono temi che hanno radici lontane: per Aristotele – lo ricorda Bertrand Russell (Wisdom of the West, 1959) – la città ideale è quella che si può osservare con lo sguardo dall’alto di un colle; mentre per gli archeologi (White House, 1977) le città sono nate quando lo spazio fra gli edifici ha assunto significato, o meglio quando questo significato ha cominciato a prevalere su quello dei singoli edifici che lo contornano.
Le radici delle nostre esperienze, lontane ma meno arcaiche, affondano nelle tematiche del Team X. Ricordo spesso «Un seme per la metropoli» (Bruno Zevi, La strada non più l’aula per imparare, 1966), poi – primi anni ’70 – il fallito Piano Quadro delle Attrezzature per Napoli; poi Noeuds de mobilité et édifices-parcours, hypothèses pour le renouvellement urbain; Les parcours pietons dans la structure des nouvelles typologies urbaines (Le Carré Bleu, 1976/1977), un articolato progetto di ricomposizione urbana (Spazio e Società, 1983), Le projet voiture-ville / l’élément architectural automobile: vers un vocabulaire architectural et urbain nouveau (Edward Grinberg, 1988). Sempre lontane, ma più recenti, varie occasioni intrecciano «città dei 5 minuti» / navette ecologiche / luoghi di condensazione sociale: Salerno-Porta Ovest (2008); la riorganizzazione del Rione Libertà a Benevento (Legami, liason, links, Le Carrè Bleu 2008); un progetto in Puglia (Programma di rigenerazione urbana a Terlizzi, www.domusweb.it; Be lean, be clean, be green, Bioarchitettura 2011). Infine, quasi emblematico, il PUC di Caserta, «modello urbano sperimentale per il futuro delle città» esaminato con interesse in The city we need, Urban Thinkers Campus / UN-Habitat, Forum Universale delle Culture 2014 (Ritratti di città. Caserta alla prova del piano “umanistico” comunale, 2017).
Dal 2008 queste nostre esperienze – unite ad altre di Emilio Ambasz, Tadao Ando, Mario Cucinella, Herbert Dreiseitl, Joachim Eble, Norman Foster, Massimiliano Fuksas, Jacques Herzog, Michael Hopkins, Gernot Minke, Renzo Piano, Geroge W. Reinberg, Philippe Samyn, Paolo Soleri, Alexandros N. Tombazis – hanno alimentato la Mostra avviata in occasione del XXIII° UIA World, poi con decine di tappe in vari paesi non solo europei. Da tempo quindi circola un benefico virus: altrove produce effetti concreti, mentre qui – dove è stato incubato e sostenuto – si stempera o scompare in lungaggini burocratiche e diatribe locali.
Benessere Italia
Negli anni ’50 del secolo scorso un miracolo trasformò ogni aspetto della società italiana. Malgrado errori evidenti anche senza l’attuale sensibilità, lo si definì miracolo perché stupì il mondo. Oggi si può fare altrettanto, anzi meglio, ma è essenziale crearne le precondizioni.
Non occorre un Catechismo Nazionale pe’l cittadino del tipo di quello diffuso appena due settimane dopo la proclamazione della sfortunata Repubblica Napolitana del 1799. Istituita l’anno scorso, la Cabina di regia Benessere Italia ha presentato le sue linee programmatiche a metà gennaio, pochi giorni prima che qui si diffondesse l’attuale pandemia. Può adeguarle, può essere rafforzata, può assumere anche compiti, un tempo dell’Autorità per la Vigilanza Nazionale sui Lavori Pubblici maldestramente poi interpretati dall’Autorità Nazionale Anticorruzione, fra i responsabili di un’overdose burocratica ostruttiva che ignora il valore del tempo e di aver consolidato l’immagine di un’amministrazione pubblica ostile, non amica. Benessere Italia può diffondersi, captare ogni energia trasformatrice, indirizzare l’uso delle risorse, diventare lo strumento concreto per far sì che l’indispensabile rivoluzione abbia effetti rapidi e positivi.
«Dall’ossessione social individuale si è tornati d’incanto al racconto collettivo della TV. La quotidianità “bellica” è scandita da bollettini di guerra che sono la conta dei morti, la conta dei guariti, le terre infette (conquistate dal nemico) e le terre sane (in mano agli amici), gli sforzi per sfornare nuove armi più potenti (vaccini) e le regole di coprifuoco per la gente»
Questo è al momento il racconto dei media rispetto all’assedio del Covid -19 e questo è un racconto collettivo di sforzo comune, di unità d’intenti di un Paese in lotta contro il nemico per la propria salvezza.
prima parte Post-Antropocene: sostanza di cose sperate