Prima Napoli, poi Roma; poi Bari, Torino, Firenze; forse ancora Torino, e certamente non è finita. Cortei non autorizzati, manifestazioni, vandalismi, furia distruttiva mettono in mostra, assieme al malessere per i provvedimenti del Governo tesi a cercare di contenere la diffusione incontrollata, e forse incontrollabile, della pandemía da Covid 19, una rabbia che più o meno stabilmente cova sotto la cenere di una società da anni in crisi; e che esplodendo mette assieme tutte le possibili contraddizioni nelle quali si ritrovano sempre le frange più o meno occulte ma in servizio permanente effettivo dell’italico neo fascismo, sempre pronte ad esibire la peggiore simbologia fascio-nazista.
In questo scenario l’anno venturo sarà ricordato il Centenario dell’assassinio di Giuseppe Di Vagno che avvenne a Mola di Bari il 25 settembre 1921 ad opera di una squadra di studenti ed operai di Conversano aderenti al movimento fascista e ispirati, se non proprio comandati, dalla fazione più intransigente: quel fascismo rurale che osteggiando il patto di pacificazione che era sul tavolo del Presidente della Camera, con l’adesione dello stesso Mussolini ma dal quale recederà perché questo gli imporrà l’ala più truce, aveva teorizzato che solo la violenza avrebbe potuto garantire la conquista del potere.
La Fondazione Giuseppe Di Vagno (1889-1921) che porta il nome di quel giovane Deputato che Leo Valiani indicherà come «Il Matteotti del Sud», nel 2021 ha in programma di rivisitare il blocco storico 1919-1922, e sottraendosi alla pur legittima suggestione di una commemorazione meramente retorica si sforzerà di scorgere assieme a eventuali affinità e ineluttabili peculiarità, un ammonimento per il presente.
Gli studiosi hanno rappresentato l’Italia del dopo 1918 in preda a forti pulsioni sociali in conseguenza della povertà, se possibile solo aggravate, dalla cessazione del conflitto mondiale, dal quale pure era uscita vincitrice, e della sconfinata delusione di masse operaie e contadine verso le quali le classi dirigenti che avevano inneggiato alla guerra non riuscivano ad adempiere alle minime, esistenziali promesse di accrescere il benessere, innanzitutto attraverso il lavoro, in particolare al sud con la lavorazione delle terre incolte.
La delusione ben presto si trasformò in rabbia sociale: fino a riconoscersi, forse senza rendersene conto, nella strategia della violenza di coloro che, invece, ben consapevoli perseguivano interessi del tutto contrastanti: operai e contadini delusi, interessati solo al lavoro, inconsapevolmente alleati con reazionari ed agrari interessati solo al rovesciamento e alla conquista del potere.
Come avvenne, dopo un biennio sanguinoso e in uno Stato sempre più debole nel quale le forze dell’ordine non di rado furono alleate delle forze eversive, con spargimento di sangue innocente: da Giuseppe Di Vagno a Giacomo Matteotti, a molti altri.
Per quanto «la storia non si ripet(a) mai allo stesso modo, ma ripropone spesso, davvero troppo spesso, orrori analoghi», le manifestazioni di questi giorni vedono la partecipazione di ristoratori e commercianti colpiti dalle misure anti COVID, ma anche dallo stesso COVID, assieme a gruppi di sbandati intenti a spaccare vetrine e ad arraffare giacche, scarpe e borse delle migliori firme, producendo una perversa eterogenesi dei fini come segnala Marco Revelli: una situazione che rende necessario un approfondimento da parte di storici e analisti.
Per mettere in guardia chiunque lo voglia, e perché quello che si verificò in quegli anni terribili, con immancabili devastazioni anche se rivolte verso sedi di partito ma anche di esercizi commerciali, non abbia a ripetersi: mai più!
Interessanti, in proposito, appaiono le pagine che nel 1923 scrive Giacomo Matteotti (Un anno di dominazione fascista, di recente ripubblicato ad iniziativa dell’Istituto di Studi Storici Filippo Turati) e, fra le innumerevoli altre, la citazione della devastazione in Bari della sede del Comitato per le onoranze a Giuseppe Di Vagno, in Conversano della Farmacia Panaro e dell’esercizio commerciale di Federico Gigante, per i cui titolari l’unico torto era l’essere amici e sostenitori di Di Vagno.
Ad un secolo di distanza il Paese da tempo è flagellato da una crisi economica e sociale che accanto al populismo, negli anni, ha fatto emergere pulsioni razzistiche e antieuropeiste impersonate in particolare dalla Lega salviniana, oltre che il nazionalismo meloniano, assieme sostanzialmente maggioritari nel consenso del Paese.
Dalla crisi economica, anche per la sua forza democratica, il Paese è riuscito a difendersi; anzi in qualche modo ha manifestato indubbi segni di ripresa, quando del tutto imprevisto è piombato lo tsunami della pandemia.
Il Governo, più che il Parlamento, è entrato in campo con prepotenza; scemato l’attivismo, anche se non il consenso, salviniano con le improbabili spinte contro immigrati di ogni sorta, tutt’ora maggioritario stando ai sondaggi, mentre specularmente cresce l’area favorevole alla Meloni; le consultazioni elettorali in Emilia e Romagna, quelle Comunali e in sette Regioni del settembre 2020, tuttavia, hanno segnato un arresto dell’ascesa di una destra xenofoba e razzista che contrariamente alle aspettative non ha dilagato; anche se la sinistra storica – quella più legata alla democrazia costituzionale – non ha accresciuto in maniera rassicurante i propri consensi.
Non sono mancata qua e là, in maniera più o meno arrogante, manifestazioni esplicite della destra eversiva, tuttavia senza alcuna tolleranza di Polizia e Carabinieri.
Alla debolezza politica dello Stato di un secolo fa oggi fa riscontro una sorta di sfilacciamento della sua forza unitaria, in conseguenza non solo per effetto della ripartizione o concorrenza del potere di Governo tra Stato e Regioni quanto, più propriamente, a causa della collocazione politica spesso duramente contrapposta: maggioranze di gran parte delle Regioni legittimamente non allineate a quella del Governo centrale, ma soprattutto la relativa dialettica non sempre rispettosa, con prevalente propensione verso pratiche in alcuni casi di prepotente contrapposizione piuttosto che rispetto, se non delle regole, almeno di un minimo di educazione istituzionale e democratica (per esempio la Lombardia versus Stato nazionale).
Le restrizioni del Governo sulle attività e in particolare sugli esercizi pubblici già al tempo del primo lockdown avevano creato un malessere, sempre più tendente a vera e propria rabbia sociale, che è andato via via crescendo per mancato rispetto degli interventi economici promessi.
Quella rabbia, nei mesi addietro tenuta a freno, in questi giorni sta esplodendo in maniera sempre più violenta, viene cavalcata con ostentazione dalle frange neo fasciste e dei centri sociali, e si manifesta nelle selvagge devastazioni che talvolta colpiscono una delle parti oggi accomunata dal medesimo malessere.
Il grido che tiene assieme tutto è «Libertà!», ma ne si calpesta il significato e il valore più profondo.
Anche se questo stesso mondo di facinorosi, quando se ne è presentata l’occasione, è giunto a disconoscere sia il leader del sovranismo, Salvini, che la Meloni campionessa del peggiore nazionalismo: il primo, infatti, duramente contestato a Roma davanti al Panthéon quando ha cercato di mescolarsi ai ristoratori che avevano imbandito tavola simbolicamente sulla piazza all’insegna del «buffone, vattene» da quegli stessi «che la mattina si alzano per dar da mangiare ai figli»; mentre la Meloni, nella plateale manifestazione in via del Collegio Romano davanti la sede del MIBACT, è costretta a togliere il disturbo perché qualcuno le intimava «quando io buttavo le bombe a Piazza del Popolo tu dove stavi? Io sono di destra nazionale, ma non me’ rompete…».
Una situazione nuova, dunque, per cui la destra del palazzo potrebbe trovarsi spiazzata: senza piazza, «forse senza popolo, ma con i populismi che vanno per i fatti loro».
Francamente, difficile dire se è meglio o peggio di un secolo fa, giacché gli obbiettivi con cui ciascuno porta il proprio rancore in piazza restano confusi e difficilmente sovrapponibili, così come i confini dei protagonisti: proletariato di varie forme e ceto medio oppresso dalla insostenibilità della situazione in atto. Forse non sarà così, ma l’osservatore appena informato, in attesa degli storici, non può non intravedere soprattutto affinità tra questo 2020 e quello che accadde un secolo addietro, tanto meno riesce a contenere le preoccupazioni perché la Storia non si ripeta, soprattutto nei suoi orrori.
La Fondazione Di Vagno, in occasione del centenario della barbara uccisione di Giuseppe Di Vagno, propone una riflessione collettiva, un’attenta occasione di studio, con il coinvolgimento dei ragazzi e delle ragazze che studiano nei nostri Licei, nelle Accademie, nelle Università.
La violenza può uccidere le persone, ma non le idee e le loro passioni: come accadde, appunto per Giuseppe Di Vagno che cadde il 1921, ma anche per Giacomo Matteotti cui toccò la stessa sorte, solo tre anni dopo: entrambi nei nostri pensieri e nei nostri cuori.