Quando accadono cose che cambiano il corso della giornata, come notizie che hanno un non senso, ci si interroga, per avere una prima risposta, del perché e del come è successo e si cerca di attingere a qualcosa che rispecchi un’esperienza personale.
A volte l’approccio potrebbe risultare fin troppo intimo, ma alla visione del fuoco che ingoiava l’opera la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, il flusso dei pensieri e dei sentimenti diventa un fiume di acqua che spegne il fuoco. L’immagine è fulminante e l’antidoto è autenticamente sentimentale; versi del 2003, illuminano con luce propria quel rogo: «Scendono i personaggi negletti /dai quadri di Guttuso / ed io sono pronta lì ad accoglierli».
Avrei voluto accogliere la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto; invece, è morta e tutti siamo più poveri. Il fuoco sulla Venere degli stracci per un lungo tempo ha spento le interazioni e ha inibito il desiderio di agire. Un annichilimento che è il riconoscere quanto sia fragile la nostra società e la consapevolezza di aver costruito una realtà senza forgiare proseliti, custodi del patrimonio della nostra storia e umanità contemporanea, le sole che ci appartengono e di cui siamo possessori momentanei.
Il rogo dove è bruciata l’opera è Napoli, città amata, che ogni sera ha diversi teatri aperti e tanti luoghi dove si respira la cultura e che è stata, nei secoli, luogo prediletto e tour letterario obbligatorio in Italia, città attenta alla conservazione e alla cura dei tesori dell’arte di oggi e delle epoche passate.
Anche la Venere degli stracci è la definizione stessa dell’arte, come ogni opera d’arte che si rispetti. L’efficacia di questa definizione non è venuta meno con il rogo ma dimostra, in maniera chiara, che l’arte è superflua. Ogni opera d’arte porta seco il proprio nome e può essere non apprezzata soltanto da chi si sente anonimo.
Michelangelo Pistoletto ha portato nel nostro mondo una mitofonia, (uso un neologismo costruito ad hoc e nato dallo sgomento), esporta la meraviglia della sua arte apparsa, nel 1955, quando, liberandosi di qualcosa, a detta dello stesso artista, inizia col sottrarre e dona all’arte il sublime.
Elidere di Pistoletto è aggiungere all’arte. La generosità del genio, la forza, la sua pienezza, la teatralità, sono anche gli inizi dell’arte contemporanea.
Lo stile compositivo che Pistoletto chiama «Oggetti di meno» diventeranno, dal 1967, oggetti di più e nasce l’Arte Povera che include la Venere degli stracci, esposta a piazza Municipio di Napoli e bruciata nel rogo.
Nel suo manifesto Ominiteismo e Demopraxia, sono dominanti il tema della spiritualità e il forte richiamo alla responsabilità sociale verso l’arte. Nel Terzo Paradiso, alla Biennale di Venezia del 2005, Pistoletto rivolge lo sguardo verso la natura e il grafema in pietra, esemplare che sarà poi inserito nel logo dell’ASI, missione Vita, per la Stazione Internazionale. È presente anche sulla pavimentazione del Parco del Castello a L’Aquila.
È difficile riassumere e definire in poche righe l’opera di Pistoletto, le sue tele della natia Biella e gli specchi che raccontano lo scorcio di questo secolo, straziato da peste, povertà, guerre in prossimità di casa.
La Venere degli stracci, poetica della sottrazione è stata rasa al suolo, bruciata in un rogo, quale equivalente del nostro vivere quotidiano, delle nostre povere cose con cui abitiamo e che ci danno un senso di protezione.
È da aggiungere che l’esposizione a Napoli della Venere degli stracci è stata appropriata perché voluta, e quindi, il senso del vuoto che ha lascito, è maggiore di quanto possa sembrare. I sentimenti e le impressioni sono forti e il pensiero dominante riguarda il timore che la nostra comunità umana non abbia capito la grandezza dell’arte e di un’idea indubbiamente rinnovatrice, ma affine a noi, quasi domestica.
L’arte è profetica anche in una società incolta e ignorante e la sfida della creatività è prometeica, soprattutto quando i fili etici e morali si spezzano, poiché il suo fine non si estingue, si tramanda.
Sullo sfondo del rogo della Venere degli stracci, gli specchi dell’artista riflettono da terra a cielo perché, come afferma Romain Rolland, scrivendo di Michelangelo Buonarroti, «le grandi anime sono come le alte cime, battute dal vento» e, se bruciate al rogo, confermano la presenza del loro universo.
La foto che accompagna l’articolo è stata presa dal sito ufficiale del comune di Napoli.