A.A.A cercasi regista per il Quirinale. Uno, o più. Perché il rischio è che la partita politica che deve portare i 1.008 Grandi elettori ad eleggere il nuovo capo dello Stato, finisca in una riffa di nomi e di franchi tiratori.
Nel 2015, quando alla quarta votazione Sergio Mattarella, insigne giurista, costituzionalista, ex ministro della Difesa, cattolico democratico fu eletto dodicesimo presidente della Repubblica, Matteo Renzi, allora premier e segretario del Pd, seppe condurre la regia in sintonia con Pierluigi Bersani. Accantonate le ruggini, i due misero a segno il candidato. Renzi si liberò in un colpo solo sia dell’ombra di flirtare sempre con Berlusconi dopo il Patto del Nazareno, sia della guerriglia interna al partito. Berlusconi fu scontentato, Bersani poté dire che Renzi alla fine non aveva proposto «il gatto di casa o Chance il giardiniere».
«Se fosse stato così, sarebbe saltato tutto. Mattarella è la persona giusta, certe sciocchezze incostituzionali non le farà passare, è un giurista», fu il manifesto del leader della ditta dem, ancora lontano dall’idea di una scissione. L’intesa con Renzi avvenne dopo un incontro riservato, in cui Bersani assicurò al segretario la lealtà che non era stata riservata alle sue scelte nel 2013. Lealtà sua e di tutta la minoranza del Pd, anche se fosse stato indicato Giuliano Amato, sebbene ritenesse ottimo il nome di Mattarella.
Ma allora il Pd aveva i numeri in Parlamento per dare le carte. La capacità di regia dipende anche da questo? Renzi oggi alla domanda risponde: «Il Pd allora aveva meno voti di quanti ne abbia adesso il centrodestra. Non è un problema di numeri, è una questione di strategia e di nomi».
La strategia che manca. Nel 2015 andò così. Fu l’ultima settimana quella di fuoco. Un conto alla rovescia, di certo preparato nei mesi precedenti, però con una strategia puntuale del leader dem.
Il 26 gennaio del 2015 è lunedì. Il Pd riunito decide che sarà scheda bianca alla prime 3 votazioni. È una certezza. L’unica in quel momento, perché la maggioranza dei due terzi non c’è per nessuno dei nomi che circolano. Pippo Civati, ancora nel partito, annuncia che il suo gruppetto scriverà sulla scheda il nome di Romano Prodi, il leader impallinato nel 2013 dai 101 traditori (ma Prodi sostiene che furono almeno 121), che prima lo avevano applaudito nell’assemblea convocata al Teatro Capranica dal segretario Bersani, e che poi se ne erano liberati senza scrupolo alcuno. Quello che accadde, non deve succedere di nuovo. Prodi non è il nome giusto, per Renzi. Ma neppure Amato, su cui tanto spinge Berlusconi.
Martedì 27, al Nazareno Renzi chiama le delegazioni dei partiti. Arriva il centrodestra, eccetto Forza Italia rinviata a mercoledì. Il M5Stelle si sottrae agli incontri. Annuncia le quirinarie.
Mercoledì 28, Renzi incontra Berlusconi all’ora di pranzo nello studio di Palazzo Chigi. Con il leader di Forza Italia ci sono Gianni Letta e Denis Verdini. «Mattarella sarebbe un onesto difensore della Costituzione e un garante. Non è un renziano doc e può essere un punto di riferimento per le riforme che stiamo facendo insieme. Fareste un grave errore a ostacolarlo»: sono le parole con cui il premier cerca di convincere. Berlusconi è irremovibile, giudica Mattarella «un integralista giustizialista», che alla Corte costituzionale gli ha remato contro. Gianni Letta è possibilista. Ma non viene ascoltato. L’ex Cavaliere è convinto che anche la costola di Forza Italia, Area Popolare-Ncd di Angelino Alfano su Mattarella non ci sta e non ci starà. Sbaglia. Alfano e i suoi voteranno poi per Mattarella, ma in quel momento Berlusconi scommette sul contrario. Intanto FI voterà scheda bianca.
Giovedì 29, è il giorno davvero cruciale: c’è il primo scrutinio. I 5Stelle hanno sottoposto i militanti alle quirinarie. C’è tra i dieci nomi da votare online quello dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato. Sarà lui il candidato di bandiera dei grillini. Vendola e Sel non intendono schiodarsi dalla loro candidata: Luciana Castellina. Dal Pd, Lorenzo Guerini, che di fatto ha in quel momento nelle mani il partito, ripete: «Il Pd partirà e finirà con Mattarella».
Venerdì 30, Renzi lancia un appello: votiamo Mattarella, ci vuole la più ampia convergenza. La mossa decisiva è riuscire a convincere Angelino Alfano. Dopo ripetuti no, il leader di Ap, a sorpresa, accetta di scrivere il nome di Mattarella sulla scheda. I centristi si lacerano, Maurizio Sacconi, si dimette da capogruppo al Senato. «Persona giusta, ma metodo sbagliato», è il paravento dietro cui si trincera Alfano.
È fatta. Al quarto scrutinio Mattarella può essere eletto, Renzi lo aveva dichiarato a inizio settimana. Un azzardo buttato lì?
Sabato 31 gennaio 2015, alle 12, 58 – come scrive Marco Damilano nel suo libro Il presidente – il dodicesimo presidente è Sergio Mattarella, eletto con 665 voti e quattro minuti di applausi. È quasi la maggioranza dei due terzi (mancano 7 voti per raggiungerla), ne sarebbero bastati di meno.
E ora?
Nel 2022 per il successore di Mattarella, che ha confermato di non essere disposto a un bis, non c’è ancora neppure il copione. Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato dem, segnala: «I numeri non ce li ha nessuno. Ma soprattutto per i parlamentari, per tutti i parlamentari c’è un vincolo: trovare e votare un nome condiviso, qualcuno in grado di fare proseguire la legislatura fino alla sua scadenza naturale nel 2023».
Mario Draghi, raccontato fin qui come il naturale successore di Mattarella, è in realtà il perno della maggioranza extra large che governa il Paese e già il garante dei nostri impegni con l’Europa e del Pnrr. I partiti si sono resi conto che eleggerlo al Colle potrebbe essere un azzardo.
Ma quale ruolo Draghi immagina per sé?