Racconto per l’Amazzonia ferita

Darwin Pastorin

Correre. Nascondermi. Fiutare l’aria. Capire il pericolo dal canto degli uccelli, dal vibrare delle foglie, dall’umore del vento, delle acque del fiume. Ho imparato a sentire il battito del mio cuore. E quel battito, spesso, è stato il mio unico conforto. La mia unica compagnia.

Non ho mai avuto pace fin da bambino. Mi hanno sempre inseguito. Per vendermi, picchiarmi, sfruttarmi. Ho visto morire mio nonno e mio padre. Ho visto mia madre soltanto piangere. Hanno ucciso questa foresta, queste piante, questi fiori, questi animali.

Io non faccio altro, giorno dopo, che correre. Perché loro ci sono sempre, con il fucile il sigaro e il cappello, con le loro risate grasse, con gli stivali. Vogliono distruggere ogni ramo, spezzare l’incanto di questi colori e di questi suoni, oscurare il cielo, portare la morte dove c’era soltanto la vita.

Mi hanno detto che un tempo, mille anni fa, questa foresta era un paradiso. La gente viveva felice, spensierata. Libera, soprattutto libera. Ma gli uomini con il fucile il sigaro e il cappello hanno portato il terrore. Chiamano civiltà distruggere tribù, abbattere alberi, inquinare fiumi. Hanno costretto noi indios a diventare schiavi. Le catene hanno sostituito i nostri i bracciali e le nostre collane. Abbiamo presto imparato la canzone dei mendicanti: «Il cacao è un buon lavoro / e io sono un bravo bracciante…».

Mi hanno fatto prigioniero due volte, i fazendeiros, e per due volte sono riuscito a scappare. Perché sono giovane e le mie gambe sono buone. Quando mi hanno ripreso, la prima volta, è stata dura. Mi hanno frustato, rotto tre denti, spezzato un braccio, chiuso dentro una stanza senza pane né acqua per due giorni. Mi hanno sputato, umiliato, rimesso a spaccare pietre. La seconda, ci trovavamo ai bordi di un fiume: mi sono gettato in acqua e ho nuotato, nuotato, nuotato sino a sentire i miei polmoni scoppiare. Loro sparavano, urlavano, mi hanno mandato dietro i cani. E non hanno mai smesso di inseguirmi, li ho sentiti dire: «Vogliamo la testa di quell’indio, vogliamo metterla vicino al cancello della fazenda, un omaggio al nostro padrone».

È dura dormire poco, saettare in piedi al primo, impercettibile suono. Mangiare l’erba. Per fortuna, so cacciare. Ma non posso accendere il fuoco. Mi consola il canto del sabiá, un canto melodioso. Io e il passerotto ci parliamo, ci capiamo. Vorrei avere le sue ali e volare in alto, sempre più in alto, sino a raggiungere il sole.

Sono sette giorni e sette notti che corro. Loro non mollano. Per loro uccidere un indio è diventata una questione d’onore. Io non so quanto potrò resistere. Mi sento stanco. Vorrei poter vivere, ma non in questo modo. Vedendo la mia gente offesa. Qual è stata la nostra colpa, quali peccati dobbiamo scontare?

Invidio il sabiá. Invidio le sue ali e il suo canto. Eppure, com’è strano questo giorno. Non li sento, nemmeno in lontananza. Hanno deciso di mollare la preda? Hanno trovato altri uomini, donne e bambini da perseguitare?

È, dunque, finita la mia agonia?

Respiro forte. Il sabiá canta.

Non sapevo che tutto il Brasile stava seguendo la partita decisiva tra il Brasile e l’Uruguay per assegnare la Coppa Rimet al Maracanã di Rio de Janeiro, in quel 16 luglio 1950. Vincerà la Celeste di Obdulio Varela: i brasiliani, in lacrime, avevano altro a cui pensare. Da domani ricomincerà il mio lento dolore, la mia sete di giustizia, la mia fame di libertà.


Un mio antico racconto per il Giorno della coscienza nera in Brasile, per l’Amazzonia ferita, per i sognatori di Tijuana, per tutti gli emarginati e i migranti del mondo, per la poetessa Marcia Theophilo, per lo scrittore Jorge Amado e per il presidente Lula.

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