Riformare l’Italia, ripensando l’agenda Draghi

La fine del governo Draghi apre una crisi nel Paese non perché di fronte ai rischi per l’economia, alla pandemia o alla guerra, l’Italia perde una guida riconosciuta sul piano internazionale. Il vero problema è che Draghi era la figura più autorevole per guidare il sistema politico verso un rinnovamento dello Stato, che rappresenta il nodo cruciale della crisi della democrazia italiana.

È questa la vera emergenza su cui i partiti si sono arenati e per la quale è stato chiamato in servizio l’ex governatore della Bce. In tutte le democrazie si è aperto un processo che porta verso una nuova fase storica: si tratta di adattare lo Stato alla nuova realtà del secolo ventunesimo, alle profonde trasformazioni in corso non tutte ancora decifrabili, come l’evoluzione che prenderà la globalizzazione o l’equilibrio instabile tre le superpotenze, in modo da diventare uno strumento più efficace e veloce attraverso il quale regolare gli interessi pubblici.

La competenza del premier, la sua autonomia dai partiti, erano preziose per impostare e avviare il progetto della modernizzazione dello Stato prima di restituire la parola agli elettori. Il simbolo di questo mutamento è il Pnnr, le sue ingenti risorse europee a cui è collegata una serie di riforme. La caduta del governo rischia ora di interrompere il processo con esiti difficili da prevedere e con costi per la società. Anche perché aver perso la bussola del rinnovamento dello Stato è strettamente connesso alla regressione dei partiti, molti dei quali sono tornati ad interpretare il loro ruolo di rappresentanti di interessi particolari, di settori sociali circoscritti ed egoistici (dai tassisti ai concessionari di impianti di balneazione,) rimettendo al centro la ricerca del consenso.

Un consenso in calo, secondo i sondaggi, per la Lega e il M5S, che i due partiti hanno cercato di arginare con una mossa drammatica. Ma lo sfondo della caduta di Draghi, in realtà, resta il progetto di rinnovamento dello Stato e della sovranità ispirato dal presidente Mattarella nel quale è importante il posizionamento internazionale dell’Italia, che era tornata ad essere ascoltata nei vertici mondiali. Ed è finita per il rifiuto di Lega, Forza Italia, M5S di proseguire il cambiamento.

Se riportiamo in primo piano lo scenario dello Stato da rinnovare, il mosaico della crisi assume un più chiaro significato. La sovranità tradizionale, di cui i partiti populisti di destra si sono fatti interpreti, afferma che le decisioni politiche devono essere assunte dalle proprie istituzioni nazionali. Prima l’Italia, è lo slogan che sintetizza questa posizione. Ma nel contesto delle crescenti interdipendenze europee e globali, si delinea il tema di un nuovo sovranismo, che la guerra accentua. Il nuovo sovranismo può assumere il senso della costruzione di un sistema decisionale nazionale che, nel rispetto della Costituzione, sia efficace, efficiente, rapido, responsabile del proprio operato.

Lo studioso Rosanvallon, nel suo libro Controdemocrazia, ha spiegato che si è passati da una sovranità monista a una pluralista, in cui istituzioni elettive (che non hanno più il monopolio normativo) e non elettive alternano cooperazione e attriti. Quindi non la fine dello Stato, come denuncia il sovranismo populista, che ha bisogno di uno Stato svuotato di poteri per giustificare la sua battaglia. La posta in gioco è la ridefinizione dei compiti e della performance dello Stato in un costante rapporto con la società civile e con il contesto internazionale. Prima l’Italia ma con il mondo.

Non a caso il vantaggio competitivo di Draghi consisteva proprio nella sua conoscenza profonda dei meccanismi regolatori globali e nel suo accreditamento internazionale come banchiere centrale. È probabilmente questa la modernizzazione che Draghi ha cercato di portare avanti d’accordo con Mattarella. Ma proprio per questo suo profilo, Draghi è stato percepito da una parte della società, e da alcuni intellettuali, come esponente di una linea di depoliticizzazione del governo, cioè di spostamento del centro decisionale dalle istituzioni parlamentari verso un banchiere solo al comando.

Tuttavia, al di là delle mosse tattiche dei partiti, di fatto Draghi si è dovuto dimettere dopo l’incontro con i sindacati e le imprese, dopo cioè che ha mosso i primi passi la piattaforma per mettere mano ai diritti sociali e civili, spesso non adeguatamente garantiti. La questione del salario (perdita di potere di acquisto, cuneo fiscale, salario minimo, contratti) pone il problema di una redistribuzione che non funziona adeguatamente. Si avverte la necessità di ricalibrare un diverso rapporto di potere tra capitale e lavoro.

Come mai questa coincidenza temporale?

Se Draghi avesse potuto portare avanti questo impegno, al quale occorre aggiungere la delega per la riforma fiscale (che prevede la riduzione delle tasse a cominciare dai redditi bassi), avrebbe reso più visibile agli occhi dei cittadini la direzione del rinnovamento dello Stato, che non riguarda solo la competitività del Paese e il suo più incisivo ruolo internazionale, ma anche la sua equità interna. In questa prospettiva, appare più chiaro perché i sovranisti, cui si è accodata Forza Italia, non potevano seguirlo: la nuova sovranità che sarebbe emersa dal lavoro del governo delineava un sistema istituzionale rinnovato, meglio ordinato entro l’intelaiatura globale, che comprende le istituzioni europee e mondiali, i mercati, la Nato e la politica di difesa. Ma l’aggiunta dell’intervento sociale, avviato dal ministro Orlando e da Draghi nell’incontro con le parti sociali, faceva prendere una forma più progressiva al rinnovamento istituzionale. I populisti di destra già stavano subendo il disegno di una sovranità dai nuovi contenuti: si pensi alla continua polemica della Lega sui migranti e sulla Lamorgese quasi a voler riportare indietro l’orologio. E non è da escludere che abbiano temuto che Draghi potesse traghettare il Paese verso un assetto che si stava meglio articolando e consolidando, e che loro non avrebbero più potuto rimettere in discussione. Il processo doveva essere interrotto. La destra ha colto la finestra di opportunità aperta da Giuseppe Conte. I grillini, colpiti da crisi di consenso e di identità, hanno finito, consapevolmente o no, per diventare lo strumento del ritiro della destra.

Possiamo allora decifrare la crisi come l’esito di un conflitto tra due logiche: la logica politica centrata sulla conquista del consenso e la logica della disciplina, come l’ha definita il professore A.Roberts, dell’università del Massachussets, in un libro di qualche anno fa The logic of discipline.

Se i partiti sono alla ricerca del consenso per la conquista del governo, la logica della disciplina, vale a dire di istituzioni nazionali e internazionali non elettive, tende a disciplinare il politico attraverso regole e direttive. Draghi è un esponente di quel mondo. Queste due dimensioni a volte tendono verso un raccordo (le istituzioni non elettive sono comunque emanazione di governi e parlamenti), ma altre volte sono in disaccordo se non in contrasto.

In questi anni, non poche volte ci sono state contestazioni e reazioni da destra e da sinistra nei confronti delle istituzioni non elette che garantiscono la logica della disciplina. Del resto, alcuni studiosi hanno messo in rilievo come lo scontro sotterraneo all’interno del governo di unità nazionale avesse proprio questa natura. Il professore Ignazi, per esempio, in un articolo per la rivista Il Mulino ha sottolineato come Draghi fosse il rappresentante di un mondo esterno ai partiti, una sorta di campione della depoliticizzazione, che mostrava insofferenze per le pretese e gli egoismi dei partiti. Un altro studioso, il professore Alessandro Campi, in un articolo su Il Messaggero ha attribuito la crisi allo scontro tra il tecnopopulismo di Draghi e una alleanza strumentale tra diversi populismi di destra e quello grillino. La crisi sarebbe l’esito di una resa dei conti tra gli esponenti dell’antipolitica e il premier non eletto.

Tuttavia, per quanto il concetto di tecnopopulismo abbia un certo fascino linguistico, si tratta di una categoria che presenta non poche contraddizioni, dai confini incerti, e che non sembra adattarsi bene né al premier né alla situazione.

Non c’è dubbio che tra tecnocrazia e populismo vi siano punti di contatto e alcune sovrapposizioni. Se ne possono ricordare soprattutto due: entrambi sono critici verso i partiti sia pure per ragioni opposte.

Per i populisti i partiti rappresentano lo Stato con cui si sono identificati più che il popolo. Per la tecnocrazia è vero il contrario: i partiti non sono sconnessi con i bisogni della società, semmai per loro è diventata centrale la competizione per le elezioni. Le decisioni, le promesse sono influenzate dalla scelta di raggiungere l’obiettivo del consenso. Quindi mentre per i populisti i partiti non rispondono ai cittadini, sono distanti e sordi. E l’accusa è: tradimento. Per la tecnocrazia essi rispondono troppo, inseguono le aspettative dei cittadini, prendono decisioni non sempre adeguate. E l’accusa è: elettoralismo. Una seconda questione riguarda il governo.

Per la tecnocrazia i partiti hanno una crescente difficoltà a gestire la complessità, possiedono competenze ridotte, tendono a non rendersi conto dei vincoli nazionali e sovranazionali in cui operano. Per questo dovrebbero servirsi di più degli “esperti” e di una governance allargata (secondo la teoria del New public management).

I populisti invece denunciano l’estraniazione dei cittadini da processi decisionali poco trasparenti, guidati da persone non elette e prive quindi di una vera legittimità democratica. Se i populisti utilizzano la retorica di più partecipazione per decidere (anche se poi giunti al potere quasi sempre se ne dimenticano), i tecnocrati preferiscono meno partecipazione.

Un altro punto in comune è che populismo e tecnocrazia hanno una visione della società non pluralistica. In teoria pure i partiti dovrebbero svolgere una funzione di aggregazione di interessi diversi in competizione. Ma la visione organica della società postula l’esistenza di un interesse oggettivo del Paese, che può essere determinato in modo indipendente dai molti interessi soggettivi.

Per il resto tra populismo e tecnocrazia c’è divaricazione: per il populismo l’interesse del Paese si decide attraverso la volontà del popolo, mentre la tecnocrazia si basa su un procedimento razionale e scientifico. Se per i tecnocrati il popolo non ha il tempo, il desiderio, la capacità, le informazioni per partecipare alla decisione, per il populismo la gente sa qual è il suo interesse, che quindi diventa automaticamente l’interesse generale.

La tecnocrazia mette in primo piano la responsabilità verso le attese della società vista come sistema e sceglie soluzioni che funzionano. Si fonda cioè su efficienza ed effettività. Non a caso Draghi ha detto che il reddito di cittadinanza è un principio giusto, ma se non funziona diventa poco giusto. Per il populismo invece ciò che conta è la risposta di protezione del popolo senza tenere conto di inefficienze e costi (che poi però si scaricano sui cittadini).

L’interprete indiscusso di questa risposta è il leader, che in qualche modo incarna la volontà popolare. Gli studiosi parlano per il populismo di volontà putativa, cioè supposta ma quasi mai verificata. La categoria del tecnopopulismo, quindi, mette insieme dimensioni che difficilmente si possono conciliare. Del resto, come ha spiegato il professore Mastropaolo nel libro La mucca pazza della democrazia persino l’etichetta di populismo è generica e presenta delle ambiguità.

Nel suo ultimo discorso al Senato il premier è sembrato rivolgersi direttamente ai cittadini più che ai partiti. L’impressione è che Draghi parlasse al fuori del Palazzo, sapendo cosa sarebbe successo dentro. Questo stile comunicativo ha richiamato quello populista. Ma anche in questo caso un accostamento affrettato rischia di oscurare il fenomeno strutturale che vi sta dietro: la disintermediazione, vale a dire l’eliminazione degli intermediari come esito della trasformazione della società a seguito delle nuove tecnologie e della diffusione di internet.

Il populismo ha saputo utilizzare prima e meglio di altri attori la possibilità di rivolgersi direttamente all’audience, stabilendo un rapporto plebiscitario con gli elettori, rivendicandone in diretta la rappresentanza. Ma la disintermediazione precede il populismo. Draghi come governatore della Bce per anni ha dovuto aprire un canale di comunicazione diretto con i mercati: è famoso il suo whatever it takes con cui salvò l’euro, che rivela come fosse una pratica discorsiva ormai acquisita dal banchiere centrale e imposta dai mutamenti sociali.

In conclusione, l’interpretazione della figura di Draghi è complessa e probabilmente richiederà tempo per una analisi approfondita. Ma si rischia di non comprendere le ragioni che hanno spinto Conte, Salvini e Berlusconi a innescare la crisi se si descrive Draghi come un tecnopopulista insofferente alla mediazione con i partiti. Draghi certo non ama le liturgie dei partiti, è estraneo ai giochi di palazzo, ma chi come lui ha svolto incarichi ai massimi livelli delle istituzioni internazionali si occupa ogni giorno di politica economica.

È difficile credere che, arrivato a Palazzo Chigi, Draghi ignorasse la necessità di dovere mediare con i partiti dopo avere mediato per anni con i governi e i loro leader. È sufficiente ricordare il duello continuo con la Germania della Merkel alla Bce. Lo scenario sembra invece quello di un esponente della èlite che assume il difficile compito di condurre il sistema politico e istituzionale verso un rinnovamento, e che non riesce a concludere la sua missione perché i populisti si sono rifiutati di procedere. Scommettendo sul fatto che la decisione sarebbe passata a loro.

Ha prevalso l’istinto che impone di non ignorare i sondaggi e di cogliere l’occasione per vincere le elezioni. È stata un’affermazione di identità con la quale il centrodestra ha voluto impedire che si radicasse la sovranità delineata da Draghi. L’avvio dell’intervento sociale è stato percepito dai populisti come influenzato più dal centrosinistra. Draghi cioè stava passando dall’emergenza alla stabilizzazione di una nuova normalità. Pur senza votare apertamente contro Draghi, la destra ha innescato una crisi di legittimità: ha tolto così autorità al tentativo di Draghi e di Mattarella di costituire uno nuovo spazio politico entro il quale organizzare e gestire il conflitto tra partiti rivali in nome del bene comune.

Se Draghi non doveva compiere miracoli né azzerare il populismo, ma riuscire a far convergere forze diverse e avversarie verso un progetto di rinnovamento dello Stato come premessa per un cambiamento della società, si comprende perché abbia innescato una ricomposizione dello spazio politico. La crisi di Forza Italia con Berlusconi risucchiato verso il populismo e disallineato rispetto al Ppe, la scissione del M5S e le ripercussioni sull’alleanza con il Pd, sono il risultato delle scosse del governo Draghi.

C’è una polarizzazione: il centro-destra diventa destra ne esce estremizzato come il movimento di Conte. Il fatto nuovo sembra che questa polarizzazione faccia emergere uno spazio centrale riformatore, moderato, che potrebbe riprendere l’agenda Draghi. Ma oggi l’agenda Draghi forse non basta: occorre integrarla, arricchirla di temi sociali. Resta molto da fare per la diseguaglianza. E occorre elaborare un programma di rinnovamento che tenga conto dello scenario creato dalla crisi.

La mobilitazione di organizzazioni e singoli ha rivelato che esiste un’area sociale che ha creduto nel lavoro del premier e del governo e che rimane senza rappresentanza.

Quanto può contare quest’area sul piano elettorale? Chi è pronto ad intestarsene la guida? E la sicurezza con cui la destra pensa di vincere è davvero giustificata? Oppure si sta creando una nuova struttura di opportunità e di rischi in cui nulla è davvero deciso? E nella quale potrebbe giocare un ruolo l’astensione?

La sfida interpella innanzi tutto il Pd, che ha scoperto in ritardo di avere investito troppa fiducia su Conte, ma anche i partiti che hanno appoggiato Draghi. Rimasto orfano del campo largo, il Pd   deve dotarsi in fretta di una nuova strategia con Draghi ma anche oltre Draghi. Il centrosinistra e i democratici hanno vinto senza il M5S le elezioni amministrative sia nel primo sia nel secondo round. Si è meditato poco, per esempio, sulla svolta importante di Verona. Forse è partendo dalla riflessione su una vittoria avvenuta nonostante una strategia nazionale sbagliata che si può raccogliere e ripensare l’eredità di Draghi. Chi lo ha difeso può ricostruire una immagine dell’Italia che il premier ha solo delineato.

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