Fra le felici rigenerazioni urbane ce ne è stata una 2.500 anni fa. Alla guida di Atene dal 461 a.C., Pericle avviò un vigoroso progetto edilizio per la città. Nel 447 iniziò la costruzione del Partenone ultimato nel 432. L’anno successivo, nel Discorso agli Ateniesi, Pericle spiegò il senso di trent’anni anni del suo agire: «Qui ad Atene noi facciamo così». Quella di Atene è una rigenerazione antica, emblematica del rapporto virtuoso fra forma della città, benessere e democrazia. La mutazione culturale dell’era di Pericle produsse un salto nello sviluppo della città e nell’organizzazione sociale: nelle trasformazioni degli ambienti di vita, causa ed effetti si confondono.
L’idea stessa di sostenibilità ovviamente allora non esisteva. Oggi la condizione è diversa, viviamo in un mondo insostenibile ed i temi ambientali ne sono un aspetto rilevante che si accompagna ad altri, gravi, come il crescere delle diseguaglianze.
L’esigenza di sviluppo sostenibile è nel Rapporto Brundtland del 1987. La grande crisi energetica risale a quindici anni prima, quando l’Owershoot day – il giorno nel quale l’umanità ha già consumato tutte le risorse prodotte dal pianeta nell’anno – era inimmaginabile: da allora costantemente si avvicina. Nel 2019 intaccava il mese di luglio, poi – grazie al Covid – un poderoso salto indietro di 15 anni!
Agli stessi anni ’70 risale l’efficace paragone fra i tessuti neoplastici e la visione dall’alto delle periferie contemporanee inserito da Konrad Lorenz fra Gli otto peccati capitali della nostra civiltà: le singole costruzioni, come le singole cellule, si sviluppano senza regole e senza ritegno avendo perso l’informazione che deve tenerle insieme.
Rigenerare la città fu uno strumento sostanziale del governo di Pericle. Oggi la rigenerazione urbana è uno strumento formidabile per convertirsi alla sostenibilità: questione ormai indifferibile. Occorre ragionare sul come.
Presupposto della sostenibilità è l’abbandono della «cultura della separazione»: ha radici lontane ed è andata esaltandosi durante il secolo scorso. Contro il sopravvento delle ottiche di settore oggi è urgente una visione sistemica capace di mettere in relazione ogni cosa e che affermi il passaggio verso la «cultura dell’integrazione», quella che caratterizzerà il nostro futuro.
La «cultura della separazione» ha portato la città ad essere costruita per edifici, magari ciascuno rispettoso delle sue norme, attento però solo a se stesso. Potremmo anche definirla cultura degli egoismi. È quella dello zoning, quella che ha ingombrato i territori rispondendo alla domanda di case, scuole, chiese, fabbriche e via dicendo; a volte ha soddisfatto gli standard (grande conquista: da tempo però insufficienti). La «cultura della separazione», dando diretta risposta a singoli problemi, ha creato problemi più grossi ed inestricabili di quelli che andava ingenuamente risolvendo. Non basta rispettare regole e standard: occorrono chiarezza strutturale e obiettivi ampi e ambiziosi. Quindi mobilità, rigenerazione urbana, territorio rurale vanno visti insieme, indissolubilmente insieme: vivono di intrecci inscindibili.
Peraltro raggiungere risultati esemplari non è questione di risorse, né di dimensione. Oslo (reddito 90.000 € pro-capite) e Medellin (reddito 9.000 €, un decimo di Oslo) dimostrano che rigenerazioni virtuose non sono questione di ricchezza, ma soprattutto di visione, organizzazione, coordinamento. Anche per questo in Italia al PIL è stato affiancato il BES, indice che deriva da serie di indicatori via via più attenti e raffinati. La sostenibilità non è solo ambientale, così come rigenerare non è semplicemente sostituire edifici. È introdurre inedite qualità e relazioni fra le parti. Non è rammendare, ma introdurre doni.
La «cultura della separazione» ha fatto sì che per molto tempo i nostri territori siano stati ingombrati da interventi al più rispettosi delle proprie regole interne, al massimo smart buildings (più preciso definirli idiot buildings, termine non offensivo se ne si conosce la radice etimologica: idiota per gli antichi greci era chi non partecipava alla vita collettiva, pensava solo a se stesso ed a propri interessi). Era invece un insulto quello coniato nella seconda metà dell’Ottocento dagli abitanti delle Marolles a Bruxelles: la costruzione del Palazzo di Giustizia sconvolgeva i delicati tessuti di quell’antico quartiere: «faire l’architecte», ignorare le relazioni con il luogo e con i contesti, introdurre un corpo estraneo nel tessuto della città.
Per questo sostengo che – mentre gli archeologi, ricomponendo frammenti cercano di decodificare il senso complessivo di qualcosa del tempo passato – gli architetti del futuro saranno sempre più impegnati a rigenerare zone urbanizzate cercando di dare senso e qualità a quanto oggi non lo ha perché la costruzione della città contemporanea è andata avanti non disegnando i vuoti, non disegnando lo spazio pubblico e cercando la sua qualità, ma affiancando autonomie.
Le nostre città sono straordinarie: sono nate interpretando morfologia e caratteri dei territori; la loro identità si è via via definita e arricchita attraverso lunghi processi di stratificazione. Una particolare configurazione del suolo, l’ansa di un fiume, la sagoma di un vulcano; un particolare monumento bastavano a far si che gli abitanti della città si riconoscessero in un’identità comune.
Un tempo le città avevano chiari confini fisici che la separavano dalla campagna. Oggi c’è un’overdose di confini amministrativi, per lo più impropri. Per delineare il loro futuro le città devono superare questi confini, affrancarsi da limiti amministrativi o catastali, ragionare su scala ampia: azione difficile, non impossibile, indispensabile. A volte i confini sono monti, fiumi, laghi o elementi naturali. A volte strade o elementi artificiali. Spesso configurano separazioni, ostacoli fisici che producono o rafforzano ostacoli psicologici da trasformare in elementi di unione. Individuare elementi di unione, anche che travalichino i confini amministrativi o catastali, è fra le questioni che possono dare futuro a un territorio.
Un programma di rigenerazione urbana esamina le ragioni dell’insediamento, ne analizza l’intelligenza originaria, quella che affievolendosi ha costretto gli abitanti a incrementare le intelligenze individuali per districarsi in magmi complessi. Un programma di rigenerazione urbana deve ragionare su limiti, barriere, ostacoli che segnano il territorio: da valutare, consolidare o negare. Simultaneamente deve ragionare sulle centralità di varia scala che determinano possibilità o desideri di aggregazione. Immaginiamo corridoi ecologici, continuità del verde, percorso dei venti. Poi legami funzionali dovuti alle percorrenze – autostradali, viarie, ferroviarie, ciclabili, navigabili e così via – che lo attraversano. La realtà di un territorio è alimentata da reti ecologiche e funzionali che prescindono da confini e limiti amministrativi, che rendono possibili e facili le relazioni fra gli abitanti, chi vi risiede e chi vi opera.
Prerequisito è che le reti della mobilità non inquinino l’ambiente, non generino condizioni acustiche fastidiose, siano attente a non sprecare il tempo degli individui. In un Piano di fatto ultimato abbiamo previsto reti di navette ad idrogeno: lunghezza 2 km o poco più, velocità max 14 km/h compatibili con biciclette e bambini, modesti tempi di attesa, unico binario (impegnano poco spazio), fermate frequenti (anche meno di 200 m). Anche da qui la positività dell’elevare densità urbana evitando zoning o aree funzionali distinte: la mixitè è un altro dei caratteri da assicurare nei sistemi edificati.
Ogni Regione ha proprie norme urbanistiche e denominano diversamente gli strumenti di governo del territorio. Nelle nostre esperienze interpretiamo l’acronimo PUC (Piano Urbanistico Comunale) come Piano Umanistico Contemporaneo. La sostenibilità ne è evidentemente requisito, ma non solo nei suoi aspetti ambientali ed energetici.
Ci piace disegnare rigenerazioni che puntino alla città dei pochi minuti che garantisce a ogni abitante la possibilità di raggiungere facilmente a piedi un «luogo di condensazione sociale», un punto identitario -riconoscibile anche per la sua immagine – al quale si rapportino le più semplici funzioni quotidiane. Luoghi raggiungibili anche dalle navette del trasporto collettivo di cui prima, se opportuno connesse a parcheggi di dissuasione ed alla mobilità di scala superiore. Quindi una densa rete di luoghi di condensazione sociale che abbia grande attenzione per le preesistenze, per le loro qualità attuali e per la possibilità d’introdurre nuovi legami e qualità inedite.
Non bastano quindi interventi edilizi nZEB: una somma di edifici sostenibili non determina una città sostenibile. I nostri più diffusi apparati normativi derivano dalla cultura funzionalista, supporto della «cultura della separazione». Occorrono normative diverse, semplici, prestazionali, che esprimano la «cultura dell’integrazione». Molto distanti dalle attuali.
La rivoluzione dei mezzi di trasporto e la maggiore quantità degli spazi costruiti a disposizione di ciascuno, non solo come residenza, ha fatto sì che le città si siano andate dilatando, che si siano costruite periferie caratterizzate da recinti monofunzionali e assenza di monumentalità. Gli apparati normativi regolano tutto: la coincidenza fra limiti di superficie coperta, altezza, cubatura, superficie lorda, favorisce soluzioni scatolari ed edifici autonomi. Occorre invece ripartire dallo spazio pubblico, considerare ogni intervento edilizio non nella sua autonomia bensì come frammento di un insieme ampio, ragionare sui dialoghi fra le parti. Recuperare l’esistente a parità di cubatura non ha senso: la potenzialità edificatoria va misurata in termini di superficie utile netta, quella che ha valore economico e significato urbanistico. Non occorrono deroghe: è indispensabile cancellare le regole attuali dando spazio a un diverso modo di ragionare.
Allora basta con le autonomie. Hanno radice nella triade vitruviana – Utilitas / Firmitas / Venustas – punto fermo finché la popolazione nella penisola non era che un quarto un terzo dell’attuale. Allora il costruito appariva ancora come «seconda natura finalizzata ad usi civili». Questa triade è alla base dell’autonomia dell’architettura, rispondeva a altre istanze, ovviamente ignorava questioni energetiche, ambientali e climatiche. Oggi le condizioni sono molto diverse, abbiamo bisogno di molti più metri quadri pro-capite che non in passato. Poi siamo sempre più nomadi, grazie all’informatica viviamo simultaneamente più realtà, ci spostiamo anche fisicamente con grande facilità.
Rigenerare significa agire sugli ambienti del passato valutando ogni azione su parametri relazionali per evitare interventi tesi a far prevalere parametri interni al singolo oggetto. Le logiche di immersione dovranno prevalere sulle logiche interne delle singole costruzioni. Non più ottiche di settore, ma logiche di relazione, interazione, integrazione. Ambiente / Paesaggio / Memoria scardinano i criteri di valutazione abituali: frenano la corsa verso il baratro. Non riguardano l’intervento in sé, ma le relazioni con i contesti in cui si immerge. Spingono a concepire un intervento come parte dell’insieme, frammento del tutto. Esprimono relazioni: catastrofico ignorarle.
La prima riguarda l’Ambiente.
Qualsiasi intervento va valutato per come incida su qualità dell’aria, emissioni di CO2, sugli aspetti geologici e idrogeologici, sull’acustica, la luce e così via. Come per l’energia si è passati da comportamenti dissipativi alla riduzione dei consumi, poi all’obiettivo nZEB (non infrequenti interventi che producano più di quanto consumino) sui temi ambientali non si tratta solo di limitare gli impatti, ma di sconfinare in miglioramenti improbabili, imprevedibili ma possibili. La qualità dell’ambiente di vita incide sui comportamenti umani: aggrega, disgrega, favorisce sicurezza, benessere, economia, felicità. Uso il termine ambiente di vita perché sintetizza il risultato delle azioni abitualmente definite urbanistiche o architettoniche che è indispensabile valutare per come si riflettano sull’ambiente in senso lato, che si vorrebbe stabile, non alterato dalle azioni umane.
La seconda valuta il rapporto con il Paesaggio.
Qualsiasi trasformazione modifica paesaggi tutelati dall’art.9 della Costituzione nel senso espresso nella Convenzione Europea del Paesaggio, cioè nello stretto intreccio fra forma e cultura che l’ha generata. Ogni azione deve puntare a migliorare il contesto paesaggistico: non aggiungere ingombri nel territorio, ma introdurre un dono, una qualità inedita che arricchisca il contesto. Quindi – con come l’Ambiente – continuamente modificato e migliorato dall’uomo.
La terza riguarda la Memoria.
Come ogni data del calendario, così ogni punto del territorio è stato testimone di presenze e avvenimenti, deriva da lunghi processi di stratificazione del quale ogni frammento diviene parte. Ogni volta c’è da chiedersi come, oltre a essere sostenibile in termini ambientali e paesaggistici, il nuovo intervento possa incidere sul benessere collettivo, quello che oggi si misura e il cui indice si affianca al PIL. Contribuisce ad aggregare o a disgregare? Apporta un dono? incide positivamente su spazio pubblico, relazioni umane, sicurezza, memoria collettiva?
Comunque le rigenerazioni devono essere agili, rapide, perequate, attente alle questione geologiche ed idrogeologiche. Oggi occorre rigenerare, ma non consumare suolo (ne si parla da anni, ma il Rapporto ISPRA 2020 mostra ancora dati terrificanti: ritmo di 2 mq di territorio urbanizzato al secondo; e sul tema della desertificazione è a rischio il 20% del territorio. Solo al Senato sono depositati 12 disegni di legge in materia, presentati da tutti i partiti. Infine, rigenerare, ma non consumare tempo (non ne si parla, ma che credo che una legge contro il consumo di tempo sarebbe una grande conquista nel nostro Paese). Nell’attesa qualcosa possono fare anche singoli Comuni.