Roberto Benigni o della gratitudine

Giorgio Simonelli

La performance di Roberto Benigni in occasione della consegna del Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia ha avuto un’enorme eco nei vari media. Era prevedibile.

Tuttavia, nello schema classico che segue le apparizioni in pubblico di Benigni si è manifestato un certo cambiamento. Molto apprezzamento, espressioni di entusiasmo, persino di commozione per le sue parole, concentrati soprattutto sul finale dedicato a Nicoletta Braschi e ampiamente diffusi su tutti gli organi di informazione. Anche quelle testate che in passato hanno avanzato riserve, critiche, polemiche, talvolta pesanti sul valore delle sue esibizioni, hanno rinunciato al loro ruolo tradizionale.

Persino in rete, luogo in cui solitamente si scatenano gli attacchi più volenti, il clima è apparso molto più morbido, con proteste a scoppio ritardato, fatte quasi per dovere, tanto per non mancare all’appuntamento fisso. Questa volta nessuno per nostra fortuna ha rivangato l’assurda storia della falsificazione storica della liberazione di Auschwitz; più pertinentemente le critiche si sono concentrate sulla troppo netta trasformazione del comico irriverente, quello che saltava addosso alla Carrà, in un cantore dei buoni sentimenti che finisce per risultare stucchevole.

Una critica discutibile, ma su cui si può anche discutere seriamente, a differenza di quella, basata sul nulla, sul tema di di Aushwitz. Ma c’è un aspetto, una parte del discorso di Benigni che è rimasta ai margini dell’attenzione, come oscurata dalla travolgente dichiarazione d’amore per Nicoletta. È la parte dei ringraziamenti, l’aspetto della gratitudine. Chi ha seguito per intero il discorso avrà notato che, nel momento in cui ringrazia tutti coloro che l’hanno scelto per creare delle storie, Benigni ha fatto un lunghissimo elenco di nomi, da Ugo Gregoretti a Sergio Citti, da Woody Allen a Matteo Garrone, passando per molti altri. A pensarci bene è una cosa assai singolare, una scelta che rischia di apparire un po’ pignola e che invece è il segno di una sincera gratitudine che non vuole trascurare nessuno nel momento in cui si riceve un grande riconoscimento.

Qualche anno fa Edmondo Berselli scrisse un bellissimo libretto, Il più mancino dei tiri, in cui spaziava da par suo tra letteratura e politica, musica e filosofia, mescolando alto e basso, partendo dal calcio, da Mariolino Corso (il mancino è il suo), Helenio Herrera, Nereo Rocco per arrivare a Hegel, Derrida e Benjamin. Tra le altre fulminanti osservazioni ce n’era una sui ringraziamenti che gli autori fanno all’inizio dei loro libri.

Osservava Berselli con la sua ironia come in realtà questa pratica più che mettere in luce le persone ringraziate sia una forma di esibizione di chi ringrazia, dell’autore. Per cui, se l’autore è famoso ci tiene a ringraziare la dattilografa, lo studente per dimostrare il suo animo democratico, se invece è un autore sconosciuto, alle prime armi, ringrazia il suo celebre professore, l’importante curatore della collana, in modo da mostrare di far parte di una cerchia che conta. Mi è tornato in mente questo magnifico pezzo di Berselli ascoltando Benigni che nei suoi ringraziamenti ha scelto di nominare tutti, uno per uno i suoi registi, non certo per vantare la sua appartenenza al mondo del cinema importante, ma per non trascurare proprio nessuno. E mi sono ricordato di un episodio che ho vissuto personalmente.

Qualche anno fa facevo parte di un gruppo che organizzava un premio per la regia televisiva, il Premio Smeraldo che veniva assegnato ad Amalfi a un personaggio che avesse contribuito alla qualità della produzione televisiva, premio ora scomparso a causa di una certa insensibilità della classe politica. Un anno la scelta cadde su Renzo Arbore. Preparando il libro di testimonianze che accompagnava il premio, mi fu chiesto di proporre a Benigni di scrivere un suo ricordo del premiato.

Avevo conosciuto Benigni scrivendo con un collega esperto di teatro, Gaetano Tramontana, un libro sulla sua attività cineteatraltelevisiva e lo chiamai alla sua casa di produzione. Mi rispose una zelante segretaria che, dopo aver ascoltato la mia proposta, mi disse cortesemente che avrebbe riferito ma che era assai improbabile un esito positivo. Benigni era molto impegnato nella preparazione di uno spettacolo ecc. ecc. Avvisai i colleghi del Premio che stavano curando il volume della situazione che non ci lasciava molte speranze. La mattina successiva, con mia grande sorpresa, richiamò la segretaria; contrordine! Benigni non solo accettava con entusiasmo ma – mi aggiunse lui stesso – non avrebbe mai tollerato di mancare a un’iniziativa in onore di Arbore: a Renzino doveva molto, lo aveva trasformato da comico semisconosciuto in un personaggio popolarissimo della tv.

Fu un esempio lampante di gratitudine. Quell’elenco di nomi di persone che lo hanno scelto a Venezia poteva sembrare anche eccessivo, fuori luogo nella sua lunghezza meticolosa, ma non fa che confermare la mia impressione. La citazione di Sant’Ambrogio sulla necessità di ringraziare non è esibizione di sapere, una frase con cui farsi belli. La sua immediata applicazione testimonia un modo di essere, una regola di vita seguita con sincerità, è un esempio prezioso almeno quanto la dichiarazione d’amore.

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