Il 19 aprile 2023 Rocco Scotellaro ha compiuto cento anni. L’anniversario non è trascorso inosservato: da qualche settimana su tutto il territorio nazionale numerose iniziative di varia natura hanno ricordato la nascita del «sindaco-poeta» di Tricarico. Altri convegni, seminari, letture pubbliche e trasmissioni radiofoniche verranno nei prossimi giorni, fino all’ulteriore traguardo del 15 dicembre, quando settanta saranno gli anni che ci separano dalla sua morte, avvenuta nel 1953 a Portici.
Si può dire, senza dubbio, che il centenario scotellariano sia accompagnato da un certo entusiasmo, per certi aspetti prevedibile, per altri no. Rifletteremo, al termine dell’anno in corso, sugli esiti delle celebrazioni, sul contributo che esse hanno offerto alla conoscenza dell’opera di Scotellaro e, come sempre accade in questi casi, sugli inevitabili rischi di monumentalizzazione cui essa va incontro. Al netto del pericolo più consistente: che, finita la festa, non resti che l’oblio.
E poiché la fortuna del lascito scotellariano si è caratterizzata, lungo la seconda metà del Novecento, per la sua intermittenza, vale la pena provare a difendersi dalla ricorsività dei suoi effetti. Chiedendosi, ad esempio, che senso possa avere oggi rileggere la sua esperienza, magari riconducendola, suggerisco, al contesto meridionalistico nel quale sorse e si sviluppò.
A mio giudizio, sono due le ragioni di un’attualizzazione in senso politico. Entrambe costringono a rileggere Scotellaro con occhi forse diversi e probabilmente nuovi.
La prima concerne la fisionomia dell’intellettuale-Scotellaro. Le indagini storiche e documentali permettono oggi di demolire il mito, a lungo coltivato, del «poeta-contadino». Non già perché Scotellaro sia altro da quel contesto sociale, ma perché la relazione con le classi oppresse, categoria che ingloba e nello stesso tempo va oltre la marmorea definizione di «civiltà contadina», si pone, nello Scotellaro ventenne come una necessità politica, dunque come l’esito di una riflessione militante e di una scelta.
L’immagine del poeta ingenuo e sorgivo, o del ragazzotto di provincia che prova a far versi e che per puro caso si trova a ricoprire la carica di sindaco, favorita da una lettura mitizzante e volgarizzante (che, sia detto chiaramente, riduce e semplifica le posizioni di Carlo Levi in merito), cozza con numerosi dati di realtà: in primis, l’origine di classe di Scotellaro, figlio di un calzolaio e di una scrivana, proveniente da una famiglia in grado di sostenere le spese per la sua formazione scolastica, che si consumò tra Sicignano degli Alburni, Cava de’ Tirreni e i licei classici di Matera, Potenza e Trento (dove conobbe una figura decisiva per la sua vocazione antifascista come Giovanni Gozzer); in secondo luogo, la frequentazione, a partire dai primissimi anni Quaranta, di personalità politiche e culturali di varia estrazione ideologica, i nomi da fare, in tal caso, sono quelli di Rocco Mazzarone e Tommaso Pedio, con i quali a lungo si confrontò, che condussero Scotellaro, nel frattempo colpito dal lutto paterno e rientrato a Tricarico dopo il soggiorno a Tivoli, a maturare in autonomia precise scelte di campo.
Se non si tiene conto di tutto questo contorno sociale, è facile sfuggano le ragioni per cui Scotellaro, nel dicembre 1943, decise di iscriversi al Partito Socialista Italiano e di fondarne una sezione a Tricarico. Così pure va detto, ribadendolo più volte, che il ventenne approdò alla militanza politica avendo alle spalle i primi, reali tentativi di scrittura: si vedano i drammi Giovani soli e La morte del suggeritore, pubblicati da Rosaria Toneatto nel 1984, e scritti tra il ’42 e l’anno successivo; e si veda ovviamente Ramorra, più noto come Uno si distrae al bivio, terminato nel novembre del ’43, in cui sono riassunte le ragioni di una vita che vuole risolversi e ritrovarsi. Per dire, insomma, che Scotellaro, quando approda alla politica, è già un intellettuale in formazione: legge i classici e i poeti coevi, segue le posizioni degli intellettuali più in vista, entra in contatto con non pochi d’essi e cerca di capire Marx e i precetti del socialismo.
La seconda ragione, che non prescinde dalla prima, ha a che fare con il dinamismo del suo lavoro culturale. Se è vero che alla base della volontà di rappresentare le istanze delle classi popolari risieda una scelta interrogata, discussa e ponderata, è altrettanto vero che Scotellaro non concepì mai la sua attività di scrittore come scissa dall’impegno politico e poi amministrativo. Voglio dire che la mediazione che egli operò per stabilire una connessione sentimentale con le classi oppresse, confermata dall’impegno con cui, da sindaco, affrontò i temi dell’alfabetizzazione popolare e della sanità pubblica, trova un suo riflesso (ma si tratta di un mutuo scambio) nella mediazione che egli inscenò nella scrittura poetica e narrativa, provando a capire quali scelte tecnico-stilistiche adottare per inglobare, senza paternalismi, quel «mondo popolare subalterno» che aveva davanti ai suoi occhi.
Ritengo sia stata l’elaborazione, certamente inquieta e per alcuni aspetti irrisolta, di questo metodo (verghiano, direi) a suggerire, fra l’altro, l’approdo alla scrittura ibrida di Contadini del Sud, dalla quale emerge la scoperta di una realtà contadina molto più composita di quella raccontata dalla letteratura, un insieme di visioni e punti di vista contraddittori, problematici e, mi permetterei di dire, preoccupanti (è il caso del populismo rappresentato da Michele Mulieri, che somiglia terribilmente a certi esiti dell’odierna ideologia nostrana), che Scotellaro sceglie di raccontare con lo strumento della mimesi, cioè dando voce a quell’umanità da scoprire e indagare senza preconcetti moralistici.
Ecco, nell’intellettuale che «va al popolo» senza garanzie e che cerca modalità di rappresentazione non ingenuamente canoniche io vedo la possibile attualità di Scotellaro, nonché l’eredità, tutta da svolgere e ridiscutere, consegnata a quel che resta della questione meridionale. Che senso possa avere oggi riprendere quei dibattiti e quelle categorie ermeneutiche, è domanda scontata e gratuita. La nostra Italia è lontana dall’Italia degli anni Cinquanta; il tenore del confronto culturale è diverso (sicuramente peggiore) e figure come quella di Scotellaro rischiano una mitizzazione spettacolare per le ragioni che conosciamo; la stessa questione meridionale è diventata più un marchio di fabbrica che una costellazione di problemi. Ma la complessità del momento sociale richiederebbe uno sforzo di mediazione che può trovare, in quell’esperienza fin troppo rapida ma decisiva, un esempio.
Lo fu, da modello, per chi sceglieva, poco dopo, di adottare uno sguardo diverso sulle vicende delle classi subalterne: penso non solo a Danilo Dolci, ma anche a Danilo Montaldi, o al lavoro di Goffredo Fofi sull’emigrazione meridionale a Torino, o a Milano, Corea. Lo è stato, in tempi più recenti, con un salto che deve farci riflettere, per l’impegno di Alessandro Leogrande, l’ultima voce del nostro meridionalismo.
In tempi di collasso della coscienza antifascista e di sonnolenza pubblica sulla difesa della nostra carta costituzionale, e dal momento che ci accingiamo a festeggiare un nuovo 25 aprile pieno di polemiche, credo sia utile e salutare, e non retorico, guardare al Secondo Dopoguerra e, fra le tante, all’esperienza di Scotellaro, se non altro per mantenere ancora salde le ragioni di un impegno a favore degli ultimi e per ricordare quanto sia necessario porsi costantemente l’obiettivo di ricostruire, tra le macerie, un piano valoriale condiviso e democratico.
Per chi volesse approfondire: Marco Gatto, Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta, Carocci 2023