Roma di profilo

Stevka Šmitran

In questo periodo di chiusura pandemica c’è stato un momento in cui ho sentito una necessità impellente di tornare a Roma. Andata e ritorno, in una giornata, per non perdere la consuetudine di sentirmi Dentro Roma, giacché Roma è dentro di me.

Compiere questo viaggio a Roma si era fatto pressante perché mi mancava la riconciliazione con la storia, la spiritualità e l’umanità letteraria, valori che hanno avuto un rapporto simbiotico con Roma.

Ho così iniziato a preparare il viaggio immaginario a Roma scegliendo un itinerario con un solido ordine di cose ab ovo, un approccio a nuove emozioni fissate dal Pulci che, nel Morgante pronuncia la frase «a Roma tutti andar vogliamo» (II, 7) che, fino a poco tempo fa avrei pensata e non scritta, perché scontata e persino troppo ovvia.

Invece, adesso diventava fondante, voluta dalle nuove emozioni che man mano si riappropriavano dei saperi scritti su Roma letteraria e su Michelangelo che hanno accompagnato la mia scrittura e riempito le numerose pagine della mia migliore ispirazione.

Roma della letteratura di quelli, tanti, che con i loro scritti custodiscono e mostrano, al pari con i monumenti, la sua leggendaria nascita e grandezza imperiale. Sono loro che confermano che da Roma non sono mai andati via. Roma, solo quando la si interpreta, la si vive. Roma in cui si ritrova la città natia e ogni altra città in cui abbiamo sentito il palpito della vita. Roma è la città che per qualche motivo, che a noi resta sconosciuto, ci ospita e ci attira nei suoi angoli perché lo sguardo possa modellare il mondo intero.

È, forse, la sola città di cui sappiamo molto perché si fa scoprire da chiunque la visiti e si fa possedere. Una specie di culla dove si può rinascere per scelta. Roma è anche di quelli che non la abitano, di quelli che la visitano e di quelli che la percorrono nei propri pensieri.

Pare ci sia una sensibilità geografica per i luoghi che di primo acchito diano la sensazione di esserci già stati in un momento di quel «beate vivere» che non si cancella.

Ce lo confermano gli scrittori del Grand Tour con i diari, lettere che, attraverso le loro emozioni, rivestono Roma con una nuova lingua poetica. E, come è prevedibile, dopo 2774 anni dalla sua fondazione, l’elenco è infinito e le visioni sono impareggiabili.

Il pensiero su Roma non è migliore, né cambia da un secolo all’altro; teniamo a mente quell’idioma «Roma eterna», sempre valido, in cui la lingua esprime bene tale concetto e, andando contemporaneamente nel passato e nel futuro ci si ritrova nel presente. Congiungere l’attimo del nostro tempo con i secoli passati non è impossibile nel caso di Roma il cui alito di storia è la vera fonte d’ispirazione. Ma la letteratura su Roma, in cui gli scrittori di ogni epoca che vi hanno soggiornato sono entrati a far parte della sua storiografia, va riproposta con quelle atmosfere, create in uno stato di grazia.

Ne cito alcune che più mi hanno fatto riflettere e che mi riesce di ricordare, iniziando da P.B. Shelley, tra l’altro fatalmente, sepolto a Roma: «Il cielo blu di Roma e l’effetto vigoroso del risveglio della primavera in questo clima più divino del mondo».

Chateaubriand scrisse all’amico L. de Fontanes in una famosa lettera: «Tu hai indubbiamente ammirato nelle pitture di Claude Larrain, quella luce che sembra ideale e più bella della natura. Bene, è la luce di Roma».

Ibsen visita più volte Roma abitando in stanze modeste in via del Babuino, frequenta il Caffe Greco e il Circolo Scandinavo per Artisti e qui compone la sua più importante opera Brand, sui colli Albani: «Brand, sono io nei miei momenti migliori».

Poi, Roma delle Ore italiane di H. James, che appena giunto nella capitale esclama estasiato – «per la prima volta io vivo: Cinquanta monetine nella fontana di Trevi non potrebbero restituirci l’ardente sicurezza di un ritorno ineluttabile». L’entusiasmo si ripeterà nei diversi soggiorni, più o meno lunghi, descritti con amabile penna.

Il poeta R.M. Rilke scrive a Roma il celebre libro Lettere a un giovane poeta e conferma che la sua ispirazione è capace di emozionare perché trasforma ogni realtà in una cornice visionaria e la crea in nome dell’arte: «E giardini ci sono, indimenticabili viali e scalinate, scalinate inventate da Michelangelo, scalinate costruite a immagine delle acque cadenti, che ampie generano nella caduta gradino da gradino come onda da onda».

Roma ispiratrice anche di J. Joyce che vi soggiorna dal luglio del 1906 al febbraio del 1907 e progetta, senza scriverlo, un racconto di vita dublinese che sarà il germe dell’Ulisse, dando così al romanzo una nuova chiave di lettura.

Roma del poeta J. Dučić di Trebinje (Bosnia-Erzegovina), diplomatico a Roma, che ha deciso molto del mio destino poetico. Mi concedo una breve annotazione che riguarda l’esame di maturità e la tesina sulla sua poetica che conserva la freschezza del giudizio critico e che ha tenuto a battesimo la passione e lo studio che erano già il senso della mia vita.

Nel libro di viaggi Città e chimere, la città eterna è descritta in ogni suo aspetto: «Roma non è mai bella come di notte, e la notte in nessun luogo è più bella come a Roma. Qui quando scende la notte irrompe la luce. Qui ci sentiamo contemporanei di tutte le cose di questa città che dall’infanzia portiamo nel ricordo».

Nel Sonetto romano, invece, il poeta è sulla tomba di Cecilia Metella e l’unica cosa di cui il suo io poetico desidera parlare è la dipartita millenaria, espressa nel sublime  verso in cui l’aneddotica forza del misticismo slavo-ortodosso  si compie appieno: «Per la morte la bellezza non ha un suo confine».

E Roma di M. Yourcenar è tutta personale, quando ricorda il padre: «Lo rivedo a Roma o altrove in Italia; quando aveva visto le statue di Michelangelo» Il legame speciale va oltre, diventa familiare e le fa dire, che «ognuno di noi ha certamente degli avi che hanno marciato verso Roma». Sappiamo che la Roma intimistica della Yourcenar è così esplicita e può toccare anche questi ambiti proprio perché il suo libro, Memorie di Adriano è un monumento narrativo all’impero romano.

Roma è l’universalità della cultura e delle conoscenze antropiche.

Con Roma ognuno ha modo di intessere un rapporto secondo la propria indole; secondo le strade che ha percorso, sempre per glorificare, mai per fare paragoni. Perché Roma è pagana e cristiana; del diritto e della politica; delle tombe degli imperatori: Augusto, Tiberio, Claudio; dei Fori; di una mole di pietre, mi dico, sacre, che custodiscono l’acme dell’Impero, che ogni visitatore con vanità, pensa nulla possa addombrare, «Roma è anche mia», nella salvifica convinzione dell’esclusività.

La Roma dell’atmosfera di una giornata che mette armonia tra la malinconia, la felicità del quotidiano e i propri sentimenti, si sintonizza con la storia.

Roma, città in cui nessuna morte sembra dimenticata. Me lo fanno pensare l’andata e il ritorno immaginari in cui sento che si compie quella circolarità storica come un’immortalità preesistente e, quindi, irripetibile. Motivo per cui Roma è di profilo. Me ne accorgo oggi.

 

Dentro Roma
Una linea rosa
tra cielo e terra
e Roma s’allontana
nel grembo della luna piena
che giace ammirata
dallo sguardo
che stringe il trofeo
oriente-occidente –
è la celebrazione della libertà
e dell’amore
è la celebrazione
dell’eterna castità del cielo

gente di Roma
felici voi che avete Cesare e Pompeo
possiamo fare a meno di sciegliere
tra chi fa la guerra
e chi la pace
è il retaggio millenario di Roma
che grida:
chi questo splendore tacerà
merita di essere dimenticato.

Stevka Šmitran, Dall’impero, 2007


Letture

Bruno Brunelli, Enrico Ibsen, Formiggini, 1928
Jovan Dučić, Gradovi i himere, Svjetlost, Sarajevo 1969
James Joyce, Gente di Dublino, Fabbri Editori, 1970
Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti, Bompiani, 1982
Henry  James, Ore italiane, Garzanti, 1984
Luigi Barzini, The Italians, Hamish Hamilton, 1987
Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, 1994


La foto che accompagna l’articolo è di Alessia Cocconi, Unsplash

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