Dicembre 2012: dopo una giornata di lavoro in università siamo invitati (io e Valter Fabietti, ospiti in Brasile della Escola da Cidade) a cena in un ristorante del centro della città, che suona strano definire come storico essendo una parte urbana degli anni ’50, in buona parte degradata e che ospita barboni agli angoli delle strade.
Ci si trasferisce a piedi e la cena non comincia fino all’arrivo di Ciro Pirondi, brillante direttore della Escola da Cidade; si siede a tavola e comunica di avere sentito la famiglia di Oscar Niemeyer e di avere avuto l’impressione che il maestro dell’architettura brasiliana, 104 anni ne avrebbe compiuti 105 dieci giorni dopo, «non passerà la nottata».
E così quella sera Oscar Niemeyer ci ha lasciato.
La mattina successiva la palazzina che da anni ospita la scuola di architettura, riportata in città dal campus universitario grande e periferico, è rivestita, per tutti e sette i piani che la compongono, da un drappo di garza nera che è stato fatto calare dal terrazzo (e che presumibilmente era pronto per l’uso) su cui è scritto Obrigado Oscar. Un ringraziamento dovuto a colui che ha reinventato l’architettura moderna brasiliana, sull’egida delle proposte di Le Corbusier ma anche contraddicendone le teorie sull’uso dell’angolo retto, applicando alle sue scelte formali la morbidezza della natura tropicale e delle sinuosità femminili, come da lui sempre dichiarato.
Niemeyer ha progettato i principali edifici di Brasilia, insediandoli nel plano piloto per la costruzione della neo-capitale, inaugurata il 21 aprile 1960, del cui concorso era stato dichiarato vincitore il progetto urbanistico di Lúcio Costa, con la forma di una città – insediata nel desertico altopiano centrale – che rammemora un grande essere alato o un aeroplano.
I progetti più straordinari che caratterizzano l’architettura di Brasilia sono quello per il Palazzo del Congresso Nazionale, costituito da un ampio basamento, su cui poggiano la grande cupola ribassata e ribaltata verso l’alto della Camera, e la piccola cupola che copre il Senato, affiancato da una coppia di torri per uffici che scendono sulla Piazza dei Tre Poteri; il palazzo Itamaraty nel quale Niemeyer adotta il riferimento ai grandi acquedotti romani, ammorbidendone le forme; il palazzo dell’Alvorada, con l’invenzione formale di un porticato costituito da arcate paraboliche rovesciate che toccano appena il suolo e che diventeranno uno dei simboli della città; la cattedrale, caratterizzata da una sequenza di strutture iperboloidi in cemento armato che svettano piegandosi verso l’alto, lasciando spazio a una copertura leggera, interamente composta da vetrate decorate.
Questa eccellente produzione architettonica, di cui Brasilia è solo una parte – bisognerebbe citare altre città di Brasile, Italia, Francia, Algeria – viene ricordata e sottolineata, il giorno successivo alla scomparsa del maestro, all’interno della libreria dell’Istituto degli Architetti del Brasile, al piano terra del celebre edificio di Rino Levi, che ospitò un tempo lo studio dell’architetto Vilanova Artigas, progettista – tra gli altri capolavori – della Scuola di Architettura nel grande campus universitario della città.
La libreria dista un centinaio di metri dalla palazzina della scuola di architettura segnata a lutto: la commemorazione si svolge in un locale denso di libri impolverati, sotto un mobile di Alexander Calder, che oscilla, appeso al soffitto; il protagonista è un commosso Ciro Pirondi.
Siamo a poca distanza da uno dei più significativi edifici residenziali di Niemeyer, quel gigantesco Copan caratterizzato dall’andamento sinuoso, alto circa 120 metri e strutturato con 1.160 appartamenti; poco più distante è invece la grande pensilina in acciaio, bianca, curvilinea e a sbalzo, realizzata su una fermata della metropolitana da un altro astro dell’architettura brasiliana, Paulo Mendes da Rocha, che si avvia a compiere 92 anni.
I visiting professor italiani hanno partecipato all’ultimo piano della Escola da Cidade al Jury finale del master in Abitazione e Città che si occupa principalmente della rigenerazione urbana delle favelas che nella città paulista ospitano circa tre milioni di abitanti.
I progetti presentati riguardano un tema ricorrente di questi insediamenti informali: liberare l’alveo di un torrente stagionale dalle case precarie che gli si sono sovrapposte e che possono essere distrutte dalla prima esondazione dovuta a una bomba d’acqua tropicale.
Il progetto giudicato più interessante è quello di un gruppo catalano che propone di costruire edifici con una certa densità abitativa ai margini di un parco vicino la favela, evitando un confronto dimensionale con le piccole case di bandone dello slum: lungo il torrente liberato si ergono palazzine residenziali di qualità che entrano in relazione diretta con la baraccopoli.
Su questo tema di carattere idraulico una prova significativa è stata data dal progetto di Milton Braga, dello studio MMBB, che propone di intervenire sul Córrego do Antonico, un torrentaccio che attraversa la enorme favela paulista di Paraisópolis: l’operazione consiste nel dare forma all’acqua, creando vasche di espansione che in situazione normale si comportano come spazi di aggregazione, mentre in situazione di emergenza permettono all’acqua di defluire lentamente nel grande condotto sotterraneo. L’atteggiamento è paragonabile a quello degli antichi romani che facevano di un edificio utilitario e con ruolo idraulico, l’acquedotto, uno dei capolavori di architettura.
E così veniamo accompagnati a visitare Paraisópolis, con tutte le precauzioni del caso e evitando qualunque atteggiamento voyeuristico o turistico: l’appuntamento con i delegati dalla municipalità che ci devono scortare è in un hotel a cinque stelle della Avenida Paulista (il nuovo centro economico e commerciale della metropoli brasiliana). Nella hall veniamo a sapere di non essere soli, ma che visiteremo la favela con due antropologhe inglesi.
Scopriamo una favela grande come una città italiana e assediata dalle costruzioni di edifici residenziali di carattere speculativo che hanno una piccola piscina su ogni terrazzo.
Eppure c’è una specie di centro con una strada che somiglia a un corso commerciale e si vede che si sta procedendo a lavori di rigenerazione urbana, con nuovi edifici di social housing e attrezzature per il tempo libero: progetti in via di realizzazione presentati da architetti non solo brasiliani, come Christian Kerez (Svizzera), Alejandro Aravena (Cile), Urban Think Tank (Venezuela-Svizzera) e altre firme ormai celebri.
Sono gli anni della grande speranza brasiliana, durante la presidenza di Dilma Rousseff, che ha portato avanti la spinta innovativa del suo predecessore Ignacio Lula da Silva che aveva varato con successo il programma alimentare Fome zero (Fame zero) e quello residenziale Minha casa – Minha vida (Mia casa, Mia vita), rivolto proprio alla riqualificazione urbana degli agglomerati informali.
Anche nelle nostre università stiamo ragionando su questi temi e dopo alcuni progetti di workshop internazionali applicati alle favelas di Florianópolis (città capitale dello stato di Santa Catarina nel sud del Brasile), siamo passati a lavorare su slum paulisti, dapprima Cabuçu, poi Jardim Colombo.
In quest’ultimo, in particolare, un gruppo di laureande ha proposto un’ipotesi residenziale che segue le orme del progetto cileno Elemental di A. Aravena: lo stato o la municipalità costruiscono l’ossatura strutturale dei nuovi edifici e allestiscono appartamenti minimi, cui i residenti possono aggiungere nuove porzioni abitabili in un processo comunitario di autocostruzione tipico delle favelas e del Brasile.
Una seconda tesi ambientata a San Paolo prova a dare una risposta alle occupazioni del centro degradato della città, dove i professori della Escola da Cidade hanno individuato grandi edifici dismessi interamente gestiti dai cosiddetti squatter, che si occupano della sicurezza, della pulizia, di esercizi commerciali a carattere comunitario. Qui le studentesse hanno operato mettendo in relazione nuovi edifici residenziali a carattere provvisorio, per permettere la ristrutturazione di quelli attualmente occupati, e la costruzione di SESC (Servizio Sociale di Commercio), centri comunitari che hanno assunto negli anni un ruolo molto importante nella metropoli paulista.
Un acronimo reso famoso dall’architetto italiano Lina Bo Bardi, con il SESC Pompeia, autentico capolavoro che mette insieme l’uso di una fabbrica dismessa (ora attrezzata con spazi per la lettura e mense popolari) a edifici multipiano in cemento armato a vista in cui si sovrappongono piscine, palestre e altre attrezzature.
A Lina, come viene affettuosamente ricordata, era arrivata subito dopo la guerra e una esperienza professionale nello studio milanese di Gio Ponti, con il marito Pietro Maria Bardi, celebre gallerista italiano. Oltre a Pompeia, realizza la sua residenza nella Casa de Vidrio, sospesa tra gli alberi di una foresta urbana e il Museu de Arte, sospeso come un ponte su un fianco dell’Avenida Paulista.
Stupirà sapere che São Paulo ospiti tanti capolavori di arte e architettura e che anche nelle parti più povere della Regione Metropolitana di San Paolo, 27 milioni di abitanti, cerchi una strada di riscatto urbano e sociale: basta visitare il grande Centro Cultural São Paulo (architetti Eurico Prado Lopes e Luiz Telles), con spazi per il tempo libero, l’alimentazione, gli spettacoli e lo studio, per ammirare – pur se immersa in enormi contraddizioni – una grande civiltà urbana.