Se non ora, quando?

Marco Panara

Alla guida del Pd c’è Enrico Letta. Una persona solida, esperta, dai valori forti alla prova di una sfida difficile: ridare un senso a un partito di sinistra in Italia. Potremmo pensare che è la stessa sfida dei suoi troppo numerosi predecessori in quella stessa posizione, e in effetti sarebbe stato un bene che quella sfida fosse stata accolta e vinta da uno dei tanti del passato. Ma non è accaduto e ora tocca a lui per il quale vale più che per chi lo ha preceduto la domanda «se non ora quando?».

Non è una questione di predestinazione ma di momenti della storia. Questo è un momento particolare, particolarissimo. Il pendolo oscilla e il liberismo che si è trovato all’apice del suo ciclo alla vigilia della crisi del 2008 è ora insidiato dai problemi che esso stesso ha accentuato, dalla crisi climatica all’esplosione delle disuguaglianze e in questa fase della sua oscillazione il pendolo incrocia la pandemia, che ha ridato allo Stato una centralità da molto tempo perduta.

Allora per un partito di sinistra il quando è adesso. Il come è più complicato perché presuppone il cosa, cosa fare per raggiungere quale obiettivo.

Non sono d’accordo con coloro che ritengono che le difficoltà del Pd in questi anni dipendano dall’insuccesso della fusione fredda tra la componente comunista e la componente democristiana. Il comunismo ha perso la sua battaglia egemonica da trent’anni, dove regge ancora come in Cina deve il suo successo alla trasformazione in quello che Branko Milanvic chiama «capitalismo politico». Il capitalismo è oggi l’unico sistema socioeconomico che abbia peso, rilevanza, influenza sulla terra, il modello cinese è un modo di interpretarlo che dal comunismo ha ereditato e interpretato con grande abilità il ruolo del partito unico nel controllo dello Stato, della società e anche dell’economia. E i comunisti nostrani, quelli che erano in posizioni significative ai tempi di Berlinguer ora sono in pensione.

Quanto ai democristiani erano tutto, la loro forza era di avere dentro la destra e la sinistra, i padroni e i lavoratori, la parte di loro che è confluita nel Pd è quella che almeno idealmente aveva gli aspetti sociali nel cuore. E vale anche per loro il tempo che passa, trent’anni fa quelli che oggi potremmo considerare la componente democristiana del Pd avevano vent’anni o poco più, e ai tempi di Andreotti e Forlani contavano poco.

No, il problema non è quello. I problemi in realtà sono tanti, provo a farne un elenco certamente incompleto. Il primo? La sinistra, che fosse ex democristiana o ex comunista, dall’inizio degli anni novanta e forse anche da un lustro prima non ha più studiato, o, volendo essere generosi, non ha studiato abbastanza. Non ha studiato la società e il suo evolversi rapidissimo, non ha analizzato le implicazioni nei rapporti tra le classi, tra i paesi, tra le tendenze, tra le tecnologie. Il secondo è la conseguenza del primo: non ha definito un modello di società per il ventunesimo secolo e, terzo, non ha capito o scelto chi volesse rappresentare.

Non è una situazione solo italiana. Da Blair a Clinton a Schroeder, la linea è stata quella di trovare una mediazione avanzata con il liberismo imperante, in parte giusta e in parte no perché non ha tenuto conto delle esternalità di quel modello di sviluppo, dallo sfruttamento irresponsabile delle risorse limitate del pianeta all’aumento delle disuguaglianze e anche, cosa di cui si parla poco ma che è centrale, dell’effetto politico della concentrazione della ricchezza, ovvero del fatto che i ristretti gruppi economicamente egemoni hanno riconquistato un peso nei processi decisionali della politica che non avevano più da quando il voto era attribuito in base al censo.

Tornando all’Italia, quella permanente guerriglia tra correnti della quale Zingaretti giustamente si vergogna non dipende tanto dalla fusione fredda di cui sopra ma dalla mancanza di studio, di visione condivisa e di progetto. Quando non si hanno una visione condivisa e un progetto da realizzare tutti insieme quello che resta è il potere, piccolo o grande che sia, non per fare – che cosa? – ma per esistere, per continuare ad avere un ruolo, un peso, contare qualcosa. Spesso interdicendo, che è la manifestazione più forte del potere senza progetto.

Nonostante tutto questo però il Pd è ancora lì, una credibile forza di governo. Perché? La risposta, una delle possibili, è che una cosa da padre e madre li ha ereditati ed è la responsabilità. Il Pd si sente responsabile dell’Italia, e le sue donne e i suoi uomini – chi più chi meno – sono accettabilmente credibili come persone di governo, non sono populisti, non sono demagoghi, non promettono la luna, non semplificano fuori misura. Danno il peggio di sè nel partito e il meglio, per quello che possono, nel governo. E c’è una quota dei cittadini elettori che si appoggia anche senza entusiasmo a quel senso di responsabilità.

Ma veniamo all’oggi, a quel «se non ora quando» della sfida che si trova di fronte Enrico Letta. Quello che di buono ha espresso la sinistra mondiale in questi trent’anni è stato l’impegno per i diritti civili, una battaglia bellissima che ci ha fatto fare passi avanti nell’avvicinarsi all’obiettivo meraviglioso dell’uguaglianza nelle diversità, della non discriminazione, del rispetto, dell’equo trattamento. Una battaglia permanente nella quale non si può mollare mai di fronte ai continui rigurgiti reazionari e volgari che costellano le cronache quotidiane.

Quello che la sinistra mondiale non ha espresso in questi trent’anni, salvo qualche momento in qualche paese, è il medesimo impegno per i diritti sociali. Ci sono tante ragioni per questo, i diritti civili non costano quelli sociali sì, i diritti civili toccano soprattutto culture e quelli sociali soprattutto interessi, e in una fase della vicenda della democrazia nella quale i ricchi hanno conquistato una enorme influenza sulla politica andare a incidere su sistemi di interesse assai potenti avrebbe richiesto molta forza e molto coraggio.

E anche idee chiare, che mancavano. Va riconosciuto che non era facile districarsi tra globalizzazione, digitalizzazione, crisi del modello fordista, emergere di nuove figure professionali, di nuovi modi di costruire valore e produrre ricchezza. Non era facile trovare un equilibrio tra l’obiettivo generale della crescita nella competizione globale e le tutele e il livello della tassazione necessario per coprire i costi di quelle tutele.

Il capitalismo, se vogliamo usare questo termine, ha avuto la forza economica ma anche intellettuale per affermare la sua narrazione della realtà nella quale il Mercato conquistava la maiuscola e lo stato veniva declassato alla minuscola.

Ci sarebbe voluta una potenza intellettuale prometeica per affermare una narrazione alternativa. La sinistra non l’ha avuta e i diritti civili sono stati una positiva via alternativa per affermare il proprio ruolo propulsivo. Potremmo dire che è stato il momento dell’anima liberal della sinistra di darsi da fare mentre quella che potremmo definire socialista è stata silente.

Ma questo è il passato. Il presente è diverso. La tendenza oligarchica, qualcuno potrebbe definirla plutocratica, l’aumento delle disuguaglianze all’interno delle comunità e la brusca frenata dell’ascensore sociale sono i morbi che stanno asfissiando le democrazie liberali, la crisi ambientale sta ponendo al modello di sviluppo capitalistico problemi di sostenibilità che gli stessi capitalisti hanno cominciato a riconoscere, la pandemia ha rimesso al centro lo Stato e i sistemi di welfare di fronte a un evento che il mercato non aveva la possibilità di affrontare.

È il momento in cui la sinistra anche nella sua anima socialista può, anzi deve rialzare la testa, perché è attraverso la lotta alle disuguaglianze, la riattivazione dell’ascensore sociale, la riduzione dello sfruttamento del pianeta, la trasparenza delle esternalità dello sviluppo, tutti temi suoi, che può aiutarci a salvare il pianeta, l’equilibrio sociale e lo stesso capitalismo preservando quell’apice fino ad oggi raggiunto dall’evoluzione del pensiero e della organizzazione della collettività che è la democrazia liberale.

Ci sono crepe vistose nel modello dominante, è il momento di infilarcisi per allargarle e costruire un nuovo equilibrio tra stato e mercato, tra benessere e ambiente, tra sviluppo e diritti sociali. Caro Letta, buon lavoro.

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