Se otto ore al giorno vi sembran molte (o poche)

di Giuseppe Gentile, Francesco Errico.

Anche in ragione della pandemia, che ha impresso una forte accelerata all’utilizzo dello smart-working nel lavoro pubblico come in quello privato, torna in discussione la rilevanza dell’orario di lavoro, cioè l’aspetto quantitativo della prestazione.

Torna, perché è un dibattito cui assistiamo da tempo, dall’irruzione delle tecnologie digitali nel nostro modo di lavorare, che ha messo in discussione, peraltro, anche la sede fisica di lavoro.

E infatti già nel 2000 James Champy e Mike Hammer, accademici ed ingegneri statunitensi (senza ancora parlare di smart-working) nel loro avveniristico saggio Ripensare l’azienda (Sperling&Kupfer), affermavano tra l’altro: «non saremo più pagati per il tempo passato in ufficio, ma per il valore creato per l’azienda per la quale lavoriamo». Capendo fra i primi, evidentemente, che l’aspetto qualitativo è bene che prevalga su quello quantitativo.

L’aspetto da considerare è che l’orario di lavoro, nel nostro sistema di contrattazione, è la quantità che regola in massima parte, per il lavoro dipendente, i livelli retributivi. Questo criterio appare oggi non solo in via di superamento, ma anche sostanzialmente arbitrario. Se il mio stipendio definisce quello che ricevo dall’azienda, l’orario di lavoro non misura, più, con sufficiente credibilità quello che do all’azienda.

Il tempo lavorato è una formula astratta, sfuggente, vaga e noi crediamo (e anche speriamo) che nel medio periodo si ridimensionerà ulteriormente, in favore di una migliore connessione fra produttività, obiettivi colti (individualmente o in team) e salario percepito.

In questa prospettiva si discute dunque di ridurre l’orario di lavoro dando più importanza ai risultati raggiunti. In Spagna, ad esempio, il legislatore sta esaminando questa possibilità, anche per allargare il diritto a più tempo libero per il lavoratore, ritenuto necessario per un pieno sviluppo della personalità ed una migliore conciliazione fra vita familiare ed attività lavorativa.

L’azienda spagnola Software Delsol, da parte sua, ha autonomamente optato, dal 2020, per la settimana lavorativa di quattro giorni. L’assenteismo è diminuito, la produttività aumentata (pur lavorando, apparentemente, meno) e lavoratori e lavoratrici hanno accolto con favore questa innovazione.

Si espande il numero di aziende, dalla Germania alla Svezia fino alla Nuova Zelanda, che lasciano più tempo libero ai dipendenti e più libertà di organizzarsi il lavoro, senza chiedere più di timbrare il cartellino a una determinata ora. I risultati sono mediamente buoni e l’aumento del costo del personale (calcolato fra il 15 ed il 20% perché la parte fissa di salario rimane invariata) è compensato da aumento di produttività, incremento del fatturato, motivazione al lavoro dei dipendenti e loro fidelizzazione.

Più autonomia, fiducia, responsabilità, quindi. Certo, non si può verosimilmente pensare di adottare una settimana con quattro giornate lavorative in tutti i settori produttivi e per tutte le mansioni. Però la tendenza, che anche il nostro sistema di contrattazione collettiva dovrebbe assumere con più convinzione, è quella di più flessibilità e una riduzione dell’importanza del tempo passato in ufficio.

Sono questioni che riguardano da vicino anche la Pubblica Amministrazione, di cui spesso e anche con qualche ragione si denunciano deficit organizzativi e scarsa produttività, dimensione quest’ultima poco o per niente legata alle retribuzioni.

Nel pubblico impiego, infatti, l’orario di lavoro ha una importanza ed una rilevanza contrattuale fondamentali, predominanti. Mentre il valore creato per chi alla Pubblica Amministrazione si rivolge resta in secondo piano.

Per l’insieme delle ragioni esposte, non abbiamo mai condiviso del tutto la guerra a chi non timbra il cartellino in orario, non certo per giustificare l’assenteismo, ma perché ci chiediamo se è poi così importante arrivare e andare via in perfetto orario a prescindere dalla qualità del lavoro che si svolge durante la giornata.

La Pubblica Amministrazione, non dimentichiamolo, contribuisce alla crescita non solo innovando sé stessa, motivando il personale e diventando più efficiente, ma anche agendo da facilitatore e creatore di economia della conoscenza.

Il pubblico impiego è, oggi, fattore decisivo del Piano per la Ripresa e la Resilienza (PNRR), che muoverà i suoi passi passando soprattutto da un’organica azione di efficientamento della P.A. Un imponente programma di investimento (sul piatto ci sono 1,65 miliardi suddivisi tra Fondi Strutturali e PNRR) che serviranno (?) a ridisegnare il lavoro pubblico a misura di Next Generation Eu, lungo tre direttrici che hanno già prodotto i primi provvedimenti di legge: reclutamento e ricambio generazionale, per snellire e rendere più efficaci e mirate le procedure di selezione del personale pubblico e valorizzare così non soltanto le conoscenze ma anche le competenze degli aspiranti; buona amministrazione, per semplificare norme e procedure (semplificazioni) e realizzare piattaforme trasversali di innovazione organizzativa e tecnologica (digitalizzazione); e competenze, per allestire una nuova strumentazione che fornisca alle Amministrazioni la capacità di pianificazione strategica delle risorse umane.

Nel dibattito politico molta attenzione è stata fin qui riservata, giustamente, alla riforma del reclutamento (Decreto n.80), in una prospettiva che – pur senza sconfessare il concorso quale modalità ordinaria per l’accesso al pubblico impiego – definisca percorsi di reclutamento più mirati in ragione delle varie necessità: dai percorsi rapidi di selezione dedicati ai giovani dotati, motivati e di elevate qualifiche (dottorati, master, esperienza internazionale), affiancati da una formazione ad hoc, alla selezione ed assunzione, anche qui rapida, dei migliori specialismi ai fini della realizzazione dei progetti del PNRR.

Resta però la sensazione di un ragionamento a metà: la necessità di rivedere i criteri di accesso al pubblico impiego, per orientare le procedure di reclutamento sulle competenze richieste (per profili professionali) è solo una parte del problema di migliore efficienza della Pubblica Amministrazione, che non potrà prescindere da una strettissima coerenza fra tali processi e l’esigenza di un riassetto organizzativo complessivo delle nostre Amministrazioni Pubbliche: insomma, serve a poco reclutare i migliori talenti, per poi calarli in contesti organizzativi desueti e scarsamente performanti, come appunto un’organizzazione basata sull’aspetto quantitativo (orario di lavoro), più che sulla qualità e sui risultati.

In questo contesto così dinamico e in divenire, sarà interessante verificare l’output del recente Patto per l’Innovazione del lavoro pubblico e coesione sociale, siglato dalle organizzazioni sindacali con il soggetto negoziale pubblico (ARAN), che si prefigge di modernizzare e potenziare la Pubblica Amministrazione attraverso la semplificazione dei processi organizzativi ed un massiccio investimento nel capitale umano, oltre che avviare una nuova stagione di relazioni sindacali su temi quali anche lo smart working, con l’impegno di individuare una disciplina contrattuale che scongiuri l’iper regolamentazione legislativa da Covid-19 e restituisca più spazio alla contrattazione collettiva, alla qualità del lavoro a ad una misurazione credibile dei risultati prodotti.

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