Semipresidenzialismo di fatto

Situazione di emergenza. Con queste parole Sergio Mattarella ha accettato la riconferma del mandato presidenziale. Situazione di emergenza oggi come dieci anni fa quando i Grandi Elettori supplicarono Giorgio Napolitano di acconsentire alla sua rielezione. Una prima volta nella storia repubblicana destinata a rimanere unica. Invece l’emergenza persiste, nonostante siano cambiati alcuni degli attori della scena politica. Se l’eccezione diventa regola, dunque, non si può limitare la riflessione solo a quel che è accaduto nei nevrotici giorni di gennaio 2022. È evidente quanto sia profonda la sofferenza del sistema politico-istituzionale.

Siamo davanti a un semipresidenzialismo di fatto, mai deliberato (se non nelle fantasie politiche di Giancarlo Giorgetti, il leghista responsabile). Una novità frutto di quella costituzione materiale che nei decenni passati ha accompagnato le gravi tensioni politiche di un’Italia perennemente in bilico.

Sia chiaro: non sono in discussione le qualità del neoconfermato capo dello Stato. Anzi. Mattarella è un signore delle istituzioni. Nella sua figura si condensano tanto la fiducia degli italiani quanto la riconoscenza dei due terzi dei parlamentari ormai giunti al loro ultimo anno di mandato. Bisogno di stabilità. Declinato in modo diverso. Il cittadino comune vede nel tandem Mattarella-Draghi l’occasione per la modernizzazione del Paese grazie alle ingenti risorse stanziate dall’Europa. Deputati e senatori invece vedono scongiurate le elezioni anticipate, una decimazione inevitabile per più della metà di loro, quando nel prossimo Parlamento saranno disponibili solo 200 seggi a Palazzo Madama (contro gli attuali 315) e 400 a Montecitorio (anziché 630).

Mattarella, dunque è la migliore sintesi tra un Paese reale disposto a scommettere sulle novità e un Paese legale ansioso di auto-conservarsi.

Tuttavia, sarebbe riduttivo soffermarsi solo sulle animate cronache recenti. Il sistema politico-istituzionale è in sofferenza dalla fine degli anni ottanta. Ben prima, dunque della dissoluzione della Prima Repubblica.

La scomparsa dei partiti di massa, la proliferazione di partiti e partitini personali hanno accentuato la distanza tra i cittadini e i loro rappresentanti. Persino una deflagrante novità come i Cinquestelle ha deluso le aspettative. In questa legislatura, entrati da vincitori con il 33 per cento dei voti, hanno rappresentato tutto e il contrario di tutto: l’esplosione dei populismi a braccetto con la Lega sovranista; la conversione governista al fianco del Pd; la responsabilità nazionale nel governo degli opposti guidato da Mario Draghi. Una torsione dei valori conclamati, riproposta pure nelle trattative per il Quirinale. Con Giuseppe Conte in deficit di leadership e con Luigi Di Maio ben calato nel delicato ruolo istituzionale.

Sono passati decenni dal tramonto della Prima Repubblica. Il sistema è consunto, la nostra democrazia appare sfibrata. Un fenomeno devastante come la pandemia ha mostrato le contraddizioni dei meccanismi decisionali, ha acuito le tensioni tra Stato e Regioni, tra centro e periferia.

Chi comanda in Italia?

Per quanto rappresentino un bene per la nazione, Mattarella-bis al Quirinale e Draghi stabile e rafforzato a Palazzo Chigi sono l’epifenomeno di una situazione fuori dal comune. Difficile discuterne in questa fase quando in primo piano ci sono altre questioni: l’uscita dalla pandemia, la ripresa economica, l’uso corretto dei fondi del Pnrr, la lotta alle diseguaglianze, una nuova attenzione verso la questione meridionale. A occuparsene non sarà questo Parlamento in scadenza, se tutto va bene, tra dodici mesi. Ma una riforma dello Stato e dei suoi poteri è sempre più necessaria.

Auspicabilmente meno confusa e demagogica di quella proposta da Matteo Renzi con il referendum del 2016. Ma ridefinire ruoli, funzioni e poteri del Capo dello Stato, del Presidente del Consiglio, delle due Camere, dei presidenti di Regione e dei sindaci delle grandi città è diventato indispensabile. Come è urgente consentire ai cittadini, sempre più disamorati nel recarsi alle urne, di scegliere i parlamentari, rinunciando alla pessima pratica dei nominati.

Sembrano temi lontani dal comune sentire degli italiani. Ma nei momenti decisivi, come sono stati i giorni scorsi, se ne avverte l’importanza. È in gioco la sopravvivenza stessa delle nostre istituzioni democratiche. Giusto criticarle, la materia non manca. Ma la delegittimazione no. I sei giorni spesi per riconfermare Mattarella – molti? pochi? – hanno scatenato un dileggio violento nei confronti dei Grandi Elettori. Un eccesso violento. Quasi un disprezzo nei confronti della pur non esaltante rappresentanza parlamentare. Si è consumato qualcosa di inquietante. Perché di questo passo ci si avventura verso terre incognite. Altro che il semi-presidenzialismo all’italiana.

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