Serve una nuova Europa per rispondere alla crisi attuale

Enzo Lavarra

Il 15 marzo a Roma ha soffiato il vento europeista. Ha soffiato il richiamo ai principi costitutivi dell’Unione Europea: prima di tutto la pace. Il denominatore comune è stato opporsi al ritorno dello spirito nazionalista di sopraffazione dell’altro, che per secoli ha insanguinato il nostro continente. E che confinati a Ventotene dal regime fascista ispirò a Spinelli, Rossi, Colorno, il pensiero di una Europa libera, democratica, giusta.

Quel pensiero giunse nel 1984 con Altiero Spinelli al Parlamento europeo che approvò il suo progetto di Trattato e lo consacrò come uno dei padri riconosciuti della costruzione europea, di cui l’Italia della Costituzione rimane orgogliosa oltre ogni oltraggio.

Oggi quel nazionalismo si afferma nella forma dei poli imperiali delle potenze globali e nelle ideologie sovraniste che aspirano al potere nel cuore della stessa vecchia Europa.

Gli Usa di Trump rompono l’asse euroatlantico e si dedicano a creare quella che Caracciolo chiama «l’anglosfera». Dagli Usa fino alla Nuova Zelanda, con disegni di annessione o sottomissione di Groenlandia e Canada, e dentro tale nuova dimensione tutelare i propri interessi. La storia dirà se è disegno realistico, oggi è solo quello di Trump.

Un disegno che si sposa con l’aspirazione neo-imperiale di Putin: la Russia si estende dove si parla la lingua russa. Con Putin, Trump, negozia il nuovo ordine e le rispettive sfere di influenza con un patto oligarchico che scavalca e delegittima gli organismi sovranazionali.

Per quanto paradossale è il ritorno della politica, del cinico realismo politico di leadership oligarchiche. Il caso più emblematico è la guerra in Ucraina: Putin sa che protrarre la guerra ha dei costi, Trump sa che sul piano militare l’Ucraina ha perso e dunque si ergono a protagonisti della pace.

Vedremo cosa comporterà, di fatto riprende il tracciato proposto dalla Turchia nel novembre del 2022, condiviso dall’Italia, bloccato da Biden, Gran Bretagna, Polonia e Paesi Baltico. Alla luce dei fatti è stato un errore disastroso legare l’obbligo di sostenere l’Ucraina con l’obbiettivo di abbattere Putin, rinunciando così all’iniziativa diplomatica, così come sostiene Papa Francesco, la tregua e il negoziato si fanno col nemico.

Manca una riflessione critica e quando questo accade, chi la propone viene arruolato con Putin, sulla mancata determinazione anche da parte dei falchi atlantici riguardo agli obiettivi della Conferenza Helsinki 1 (1973, ’75) ovvero per una politica di neutralità e cooperazione dei Paesi e con i Paesi confinanti la Russia. Invece di estendere la Nato e allargare l’Unione Europea a est, fornendo a Putin l’occasione per sentirsi accerchiato e richiamare alle armi lo spirito della Grande Russia.

La Cina è sullo sfondo. Non ha mire espansionistiche e di sfida militare: affronta gli Stati Uniti d’America sul terreno commerciale e tecnologico per la egemonia mondiale.

In questo quadro deve collocarsi una nuova funzione dell’Europa perché con lo stravolgimento del vecchio assetto proposto da Trump l’unica risposta dell’Unione europea è stata il RE-Arm.

La domanda è: questa funzione è figlia del Re-Arm della Von der Leyen? Ci sono molte ragioni che dicono si tratti di una opzione velleitaria, buona per tentare un recupero di credibilità da parte di vertici istituzionali inadeguati, o finalizzata a una crescita del Pil con l’industria degli armamenti. Il Re-arm è nazionalizzare il riarmo facendo debito, sforando il vincolo del pareggio di bilancio. Il risultato sarà il definivo smantellamento del modello sociale europeo, pagato da lavoratori e classi medie, e l’asimmetria fra Stati membri in tema di eserciti e tecnologie militari.

L’alternativa più sensata è quella di una difesa comune dell’Europa, ovvero di un coordinamento degli apparati militari dei Paesi membri (che già oggi spendono in armi il 58% in più della Russia di Putin), quella che Draghi in audizione al Senato ha chiamato «una catena di comando superiore».

L’obiezione più puntuale è una integrazione militare dei comandi comporti un tempo lungo, ignorando che, nonostante la dichiarazione di disimpegno per la sicurezza in Europa da parte degli Stati Uniti d’America governati da Trump, sul suolo europeo permangono centomila soldati Nato e circa cento testate nucleari (35 a Ghedi e Aviano in Italia).

Manca una nuova visione politica, che certo comprenda la difesa ma non si esaurisce con essa. Debito per le armi e non per la transizione digitale, non per il cambiamento climatico, non per i diritti dei senza potere nel mercato selvaggio. È tutta qui la crisi europea.

Che fare?

L’Unione europea deve ridefinire la sua politica estera per tornare ad essere un ponte fra est e ovest, più specificatamente verso il Sud del mondo.

Una nuova politica estera per tornare ad essere attore diplomatico e commerciale anche con Mosca, e per proporre una nuova Conferenza internazionale sulla sicurezza del Vecchio Continente. Operare per una iniziativa di pace in Medioriente, operare per fermare i massacri quotidiani dei palestinesi e di centinaia di bambini.

Riformare il Trattato di Maastricht. Tutela la circolazione di servizi, merci, persone e capitali, ma autorizza dislivelli fiscali e salariali che creano concorrenza sleale fra Paesi membri. Non si spiega anche con questo il ripiegamento nazionalistico, la fortuna dell’illusione della zattera protezionistica anche fra i ceti popolari e classi medie che votano a destra nei paesi fondatori dell’Unione europea?

Riflettere su allargamenti ulteriori dell’Unione perché l’Unione europea è già «grande da morire», scrive l’analista e parlamentare europea Sylvie Goulard nel suo ultimo libro, proponendo in alternativa di impegnare risorse per un Piano Marshall utile a ricostruire l’Ucraina.

L’Europa è il nostro orizzonte, può non essere più il nostro destino.

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