Sinner e Paolo Rossi, quando a vincere è l’Italia migliore. L’Italia bella

Darwin Pastorin

Bisognava vivere a Torino in questi giorni per capire la abbagliante follia e l’allegria senza fine del tennis esaltarsi per le prodezze di un ragazzo dal sorriso leggero e dalla classe infinita, capace di vincere con classe e umiltà, con un talento mai visto: parliamo di Jannik Sinner, che ha trionfato anche nelle ATP Finals, battendo in finale un avversario degnissimo, il californiano Taylor Fritz, 6-4 6-4.

Ed ecco l’Italia intera innalzare i peana, ballare e ridere: quella emozionata davanti alla Tv, quella che vede le proprie figlie (anche per l’effetto Jasmine Paolini) e i propri figli chiedere racchette e palline e dimenticare (solo momentaneamente?) il calcio. Quella che si veste di arancione come i capelli di Jannik. Quella che ancora riesce persino a commuoversi, in tempi feroci e neri, per la meraviglia di un campione dello sport, in grado di unire un popolo sotto un’unica bandiera, lasciando da parte, per qualche momento, paura e ansie.

Grazie alle magie del fuoriclasse Pel di carota e l’accoglienza di Torino le ATP resteranno per altri cinque anni da noi. Ma Torino, giustamente, non vuole dividere Sinnerlandia con Milano, a cominciare come qualcuno ipotizza, dal 2027. La città della Mole merita di fare suo questo evento. Senza se e senza ma. Una scommessa cominciata grazie alla ferrea volontà di Chiara Appenndino, sindaca al momento della decisione. E ora portata avanti da tutti i politici, senza divisioni di parte.

Vedere in azione Sinner è un’emozione: un atleta perfetto, che sembra arrivato da un altro pianeta per miracolo. Mai una parola sbagliata, un commento fuori luogo; perché, spesso, troppi assi sono fenomeni in campo, ma arroganti e indifferenti fuori. Jannik no: Jannik elogia, sinceramente, gli sconfitti, saluta il pubblico festante con calore, si concede ai tifosi, soprattutto ai più piccoli, con gentilezza.

Ora, avanti con la Davis: abbiamo tutte le carte in regola per difendere il nostro titolo.

Sinner mi ha riportato ai fasti del 1982, a quel Mundial di Spagna conquistato dalla nazionale azzurra, guidata dal nostro Don Chisciotte, il commissario tecnico Enzo Bearzot, grazie, soprattutto, alla rinascita, alle reti e alle illuminazioni di un centravanti simile a Jannik, per stile, intuito e dolcezza, per non aver mai conosciuto, nel momento della gloria, quando era l’uomo più famoso del mondo, arroganza o presunzione: Paolo Rossi, tornato in quei giorni di fuoco, rabbia e determinazione ancora Pablito. E anche 42 anni fa, gli italiani scesero in piazza per sventolare il tricolore, per dimenticare le ferite del terrorismo, prima dell’inizio delle stragi di mafia. Dura un attimo la felicità, è vero: ma in quell’attimo ci sentiamo tutti, nessuno escluso, trasportati da una gioia fanciullesca, vivendo dentro un mito, all’interno di una favola, avvolti da un realismo magico.

Pablito, ora, è nella leggenda e nel cuore di chi, come me, ha avuto la fortuna di averlo amico e fratello; Jannik è cronaca viva, è un presente da prima pagina, è un nobile figlio di questa nostra terra, di una bella, bellissima, Italia.

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