Il Pd ha attraversato molte fasi nei suoi quindici anni di vita. È nato sulle ali dell’entusiasmo e dell’ecumenismo veltroniano. Un volto morbido e rassicurante per attrarre componenti prima diffidenti e lontane da quell’area. Il suo clamoroso risultato elettorale, 33.4%, venne però visto come un fallimento, anche allora, e incominciò il tiro al Veltroni da parte degli antichi nemici dalemiani e dei nuovi avversari prodiani, per una ragione o per un’altra entrambi insofferenti della sua leadership.
Infatti, Veltroni si dimise dopo poco più di un anno, nel febbraio del 2009. Non un bell’inizio per il Pd. Nemmeno aver conquistato un terzo dei voti era stato un viatico sufficiente per assicurare stabilità interna.
La successiva pax bersaniana riesce a rassicurare e infatti, piano piano, il Pd risale la china e riporta alla vittoria la sinistra. Alle amministrative del 2011, nelle grandi città, i candidati della coalizione di centro-sinistra (in realtà soprattutto quelli della componte più radicale) vincono quasi ovunque e, sopra ogni altro, espugnano Milano con Giuliano Pisapia. Il vento gonfia le ali del Pd. Ma la crisi fiscale dell’autunno 2011 obbliga il partito a farsi carico dei disastri creati dagli avversari e, invece di andare all’incasso elettorale, si piega al servizio degli interessi generali entrando nel governo Monti.
Mal gliene incoglie.
Alle elezioni del 2013 invece di essere premiato per la responsabilità dimostrata viene strapazzato dal vento antipolitico grillino. Poi in quelle settimane post elettorali succede di tutto, tanto da far precipitare il partito in una crisi verticale dalla quale esce grazie alla wild card emersa nel frattempo: Matteo Renzi. Il giovane, dinamico sindaco di Firenze, beniamino dei talk-show per la sua aria impertinente e la parlantina sciolta, travolge ogni resistenza interna, rottama la vecchia classe dirigente ex-comunista e trionfa alle primarie di fine 2013.
Non solo: dopo pochi mesi si insedia a Palazzo Chigi, primo esponente democratico a guidare un governo dominato dal partito (mentre in precedenza Letta aveva convissuto a lungo con Forza Italia).
Renzi rappresenta quella boccata d’aria fresca che tutti aspettavano tanto da portarlo al 40.1% alle Europee del 2014. Per vedere una percentuale superiore bisogna risalire alle lezioni del 1958. Basterebbe questo dato per capire cosa travolge il partito democratico. L’aura trionfante del neo leader, che come Craxi rimane a capo del partito e del governo, rafforzata da una dose industriale di egocentrismo e narcisismo a livelli iperbolici, consente a Renzi di plasmare il partito a sua immagine e somiglianza. O, per meglio dire, implementando alcune delle proposte uscite negli anni dalle sue convention fiorentine organizzate alle Leopolda, dove, in realtà di mescolavano ispirazioni diverse: una politica sociale tardo blairiana, fascinazioni industrialiste e high-tech, e una proclività ai miti neoliberali dell’intrapresa e del successo.
Il Pd viene quindi (ulteriormente) piegato lungo una curvatura pro-market, peraltro già attivata fin dalla segreteria D’Alema nel Pds-Ds. Ma Renzi vi aggiunge un totale disdegno per gli aspetti pro-labour della tradizione di sinistra, tanto da tifare per l’ad. della Fiat Sergio Marchionne in contrapposizione ai sindacati. Nonché bastonare i salariati del pubblico impiego e in primis gli insegnanti vera roccaforte dei voti piddini.
Il Pd esce con le ossa rotte dalla stagione renziana. Il 18.7% delle elezioni del 2018 segnano il suo punto più basso, ancora peggiore di quanto ottenuto il 25 settembre scorso. In quegli anni è avvenuta una mutazione antropologica nel partito. Le periferie e ceti sottoprivilegiati lo hanno abbandonato mentre la borghesia urbana, acculturata e più o meno benestante, lo ha coralmente abbracciato. In questo scambio il partito ha perso consensi. Ma soprattutto ha perso la sua identità di partito dei ceti popolari. Detto ciò va dato a Matteo quello che è di Matteo: Renzi ha avuto il merito di sciogliere con un colpo di maglio il nodo gordiano dell’appartenenza del Pd alla famiglia socialdemocratica aderendo al Pse e al gruppo parlamentare socialista a Strasburgo; e, sul piano dei diritti civili, ha fatto approvare una serie di norme che i suoi prudentissimi predecessori avevano evitato accuratamente. Ma ha pervertito questo lascito positivo con le sue scelte sostanzialmente anti-popolari.
Il partito dell’ultima legislatura recupera lentamente, dopo una lunga, incomprensibile, reggenza, parte della sua tradizione di sinistra con la segreteria Zingaretti. Ma i progetti messi in campo con il convegno teorico organizzato a Bologna nel dicembre 2019, un unicum nella storia del partito dove si discute per tre giorni in forum aperti anche a contributi esterni, si infrangono di fronte alla pandemia prima, e alla crisi del governo Conte 2 poi.
L’arrivo salvifico di Enrico Letta da Parigi consente di superare una crisi verticale aperta da un j’accuse terribile contro il proprio partito lanciato dallo stesso Zingaretti. Arriva in effetti l’uomo giusto per quel momento. Tra il riflessivo e istituzionale Letta e il governo Draghi non ci può essere che piena sintonia. Fin troppa, però. Letta non si accorge dello sfarinamento del governo dopo l’elezione mancata di Mario Draghi al Quirinale, che solo la guerra in Ucraina trattiene a Palazzo Chigi ancora per sei mesi. E così il leader democratico rimane a difendere il governo fino all’ultimo. Rimanendo bruciato dalla sua lealtà il 25 settembre.
Come Bersani anche Letta non viene ricompensato dalla responsabilità dimostrata (ripetiamo, forse eccessiva).
Questa breve carrellata delle vicende del Pd serve a evidenziare i cambiamenti, quasi sempre drammatici, di leadership e di politiche. Questi passaggi hanno disorientato il tradizionale elettorato di sinistra. Molti si sono chiesti, ad esempio, come fosse possibile che il Pd avesse introdotto un provvedimento come il Jobs Act, creato per rendere insicura e aleatoria la vita lavorativa dei giovani e dei meno giovani. E perché si scagliasse furiosamente contro l’unico provvedimento serio per tamponare la povertà come il reddito di cittadinanza. E così via.
Il problema è che il Pd ha ancora in circolo molte scorie del periodo renziano che lo rendono un partito indefinito (per non parlare della sua organizzazione su cui qui sorvoliamo). Il congresso finalmente convocato avrebbe dovuto consentire un dibattito lungo, articolato, appassionato sul che fare. Si sta invece riducendo all’ennesimo beauty contest per scegliere un/a segretario/a.
Un’occasione perduta per riaccendere la speranza in chi crede ancora in una sinistra socialdemocratica. In effetti si parla solo dei candidati: non una parola su temi, problemi e prospettive. C’è il timore che il Pd abbia perso l’ultimo treno e finisca per farsi fagocitare da suoi concorrenti di destra e di sinistra. Vedremo.
Sono interventi su questo stesso tema:
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Gianfranco Viesti, Costruire un soggetto politico collettivo, radicato sui territori…
Giovanna Casadio, Appunti sulla sinistra
Leonardo Palmisano, Che cosa sognifica essere riformisti?
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