Starmer, una vittoria che sfida il vincitore

Il successo elettorale in Gran Bretagna di Keir Starmer potrebbe presto diventare un punto di riferimento non per il risultato, ma per il fatto che la vittoria potrebbe sfidare il suo stesso vincitore. E la Gran Bretagna potrebbe rivelarsi un laboratorio politico: il populismo cominciò a vincere dopo Brexit, qui potrebbe iniziare la sua discesa.

Adesso che è diventato premier, Starmer si trova di fronte a un dilemma di non facile soluzione: il suo successo è debitore del fallimento dei conservatori, che hanno perso quasi la metà dei voti e dei seggi, investiti dalla rabbia degli elettori. Come ha osservato il professore John Curtice, docente di politica all’università di Strathclyde, «più che una vittoria laburista questa sembra una sconfitta dei conservatori».

La motivazione di molti elettori è stata la volontà di punire i Tories più che premiare il Labour. I laburisti, infatti, hanno conquistato 412 seggi, 219 in più delle ultime elezioni, ma con il 34% dei voti, 9,7 milioni. Il paradosso della vittoria consiste nel fatto che grazie al calo dell’affluenza (dal 67% al 60%)  il Labour ha preso meno voti di quando Jeremy Corbyn ha dovuto incassare la peggiore sconfitta della storia del partito, ma con una quota di voti di poco superiore (allora era al 31%). Starmer ha preso meno voti anche della vittoria del 1997 di Tony Blair, 13 milioni e mezzo di voti, che interruppe il ciclo politico della Thatcher. Sono gli effetti combinati del sistema elettorale inglese, un uninominale secco in cui vince il seggio chi prende anche un solo voto in più dell’avversario, e del calo dell’affluenza.

Tuttavia, dietro la vittoria di Starmer c’è molto altro. Innanzitutto, una efficiente strategia elettorale del talentuoso Morgan McSweeney, soprannominato data nerd, capo della campagna elettorale, che ha messo a punto una strategia degna di un killer, ha scritto il Financial Times, per sfruttare il sistema elettorale inglese con estrema efficienza. Il risultato è che non si è mai vinto tanto con questo numero di voti (appena 3 seggi in meno di Blair nel 1997). Un’operazione simile l’hanno saputa fare i Libdem che hanno conquistato 72 seggi con 3,5 milioni di voti. L’approccio efficiente è stato tentato dai Tories, ma non ha funzionato (hanno 121 seggi con 6,7 milioni di voti, il 23,6 per cento). Tuttavia, se si sommano i voti dei Tories e di Farage si arriva al 38% dei voti alla destra: una conferma che il radicamento conservatore permane nonostante i suoi disastri.

Proprio questa lettura dei dati consiglia di non sottovalutare il lavoro silenzioso ma profondo che Starmer ha fatto sul suo partito. Spostato da Corbyn su posizioni di sinistra radicale, è stato riposizionato su una linea socialdemocratica più moderata e riformista. Il Labour da partito della protesta è diventato un partito di governo. Nel suo discorso a Downing street, Starmer ha ribadito più volte che il Labour è cambiato. Ha quasi suggerito ai cittadini l’idea che il Labour è legittimato a guidare il Paese, perché prima ha saputo cambiare sè stesso. «Possiamo ricominciare a guardare avanti e camminare nel mattino» ha esordito, «We did it».

Il legame tra partito e nazione evoca una nuova narrazione: il partito è cambiato, per questo è tornato a vincere; dunque, nel Paese può ritornare la speranza. Il governo che vuole servire tutti gli elettori, anche chi non l’ha votato, intende adempiere al mandato che gli è stato dato: il cambiamento, il «rinnovamento nazionale».

La narrazione è imperniata sul binomio partito-nazione, ma invertendo la priorità: «Prima il Paese, poi il partito». In questa nuova definizione della situazione Starmer enfatizza la vera fonte di legittimazione del suo governo: il fallimento conservatore, che ha indebolito e impoverito l’Inghilterra. Il fallimento è stato ereditato. Usato. Plasmato con fredda determinazione per raggiungere l’obiettivo. E adesso da premier Starmer deve misurarsi con questa drammatica eredità.

Ereditare il fallimento
Il fallimento ha un nome: Brexit. L’uscita dalla Unione Europea ha avviato un declino economico, sociale, una decadenza istituzionale (segnata dagli scandali che hanno colpito i governi conservatori), un susseguirsi di leader inefficaci. Dal trionfo di Boris Johnson nel 2019, la Gran Bretagna ha cambiato 5 premier senza riuscire a porre rimedio non solo all’impoverimento del Paese (ci sarebbero circa 4 milioni di bambini in stato d’indigenza), ma anche alla diffusa sensazione che l’Inghilterra si fosse condannata da sola. Un indice della crisi della Brexit è stato l’insorgere del nativismo inglese, del separatismo scozzese, gallese e irlandese.

La Gran Bretagna è sorta dall’unione di diverse nazioni e i conservatori non sono riusciti a scongiurare la percezione di una minaccia all’unità del Paese. La crisi del Regno Unito è seria: sono aumentate le diseguaglianze, il tenore di vita è in declino, il divario tradizionale tra l’Inghilterra meridionale più ricca e il resto del Regno Unito è cresciuto. Sullo sfondo di una grave questione di giustizia sociale, le tensioni si sono moltiplicate. Il panorama che si vede da Downing Street incute preoccupazione.

La crescita dei salari tra il 2010 e il 2020 è stata la più bassa in tempo di pace dai tempi delle guerre napoleoniche. Il tasso di crescita annuale di produttività del Paese dal 2007 è stato un deludente 0,4%, il più esiguo dall’Ottocento. Il PIL pro-capite è cresciuto in 16 anni del 4,3%, niente a confronto del 46% dei 16 anni precedenti. Inoltre, la stentata crescita del Pil è stata trainata dall’aumento della popolazione complessiva, cioè proprio da quella immigrazione che i conservatori hanno combattuto nei modi più duri, compresa la deportazione in Ruanda, fallita anche questa. La situazione era critica al punto che i conservatori, che predicano contro le tasse, hanno dovuto aumentare le imposte, giungendo ad una pressione fiscale che non si vedeva dal 1950. Il salario reale medio annuo è sceso di circa 14 mila dollari rispetto alla crisi finanziaria del 2008. È un bilancio drammatico.

L’impoverimento ha creato le condizioni per cui circa metà della popolazione (30 milioni di abitanti), secondo un organismo indipendente, la Commissione sul futuro del Regno Unito, presieduta dall’ex primo ministro laburista Gordon Brown, vive in aree che oggi sono più povere di zone dell’ex Germania dell’est (l’ex DDR), più povere di parte dell’Europa centrale e orientale, o di stati americani come il Mississippi. Il declino si riflette sul welfare e sui servizi pubblici: la sanità, la scuola, la rete idrica, le ferrovie e i trasporti versano in pessime condizioni. Le conseguenza negative dei governi conservatori si sono viste anche nell’ambiente: l’inquinamento ha colpito fiumi, mari, territori. Il servizio idrico privatizzato, secondo la denuncia dell’Agenzia britannica per l’ambiente, ha riversato nelle acque rifiuti umani non trattati in misura superiore a quella registrata in tutti gli anni passati. Anche per questo in molte realtà rurali, che avevano sempre votato conservatore, c’è stata una sollevazione contro i candidati tories.

Quando era salito al potere, Boris Johnson aveva accusato la UE di essere la causa di tutti i problemi inglesi e aveva annunciato che il leave avrebbe segnato «l’inizio di una nuova età dell’oro». I conservatori avevano convinto molti inglesi che la rottura con l’Europa avrebbe riportato la «Gran Bretagna globale» al posto che le spettava di diritto nella Storia. Questa visione era sostenuta da un nazionalismo risorgente, che vedeva nel ritorno del Paese-fortezza una garanzia di prosperità.

Presto l’opinione pubblica si è dovuta rendere conto che la realtà è molto diversa: l’esportazione dei beni della Gran Bretagna dal 2019 è crollata. Lasciare il più grande mercato unico del mondo ha avuto delle conseguenze negative. Secondo alcuni dati, se il Regno Unito fosse rimasto in Ue le sue esportazioni sarebbero cresciute di 64 miliardi di dollari, invece si sono ridotte del 15% tra il 2019 e il 2022. L’economia britannica è alimentata sempre più dalla esportazione di servizi finanziari, legali, pubblicitari, tecnologici, spesso sostenuti da aziende americane che si affidano a quelle britanniche per l’Europa. Questo modello economico produce ricchezza per finanzieri, avvocati, pubblicitari, tecnologi, ma non per i lavoratori della manifattura, gli agricoltori, i dipendenti pubblici, i consumatori. L’Office for budgetary responsibility ha calcolato che la Brexit ha portato un calo della produttività a lungo termine del 4%, in un Paese dove la produttività in genere era alta. I conservatori, smentendosi, sono stati costretti a ricorrere al deficit pubblico che a fine 2023 viaggiava per la prima volta dal dopoguerra al 100,1% del Pil, mentre fino al 2005 era poco sopra al 40% . Tutti questi fattori hanno contributo al peggior declino del tenore di vita dagli anni Cinquanta. Una drammatica condizione che ha accresciuto la povertà di molti strati sociali.

Affrontare il fallimento
La Brexit non ha comportato solo problemi economici e sociali. Ha catalizzato le questioni irrisolte dell’identità britannica: la sovranità, il suo posto nel mondo globalizzato, la decisione su cosa sia un Paese post-imperiale, la natura forse invecchiata della democrazia, le tensioni tra le nazioni. Forse per questo durante la campagna elettorale Starmer e il Labour non hanno quasi pronunciato le parole Brexit e Europa, limitandosi ad affermare che non si poteva immaginare un ritorno rapido in Ue, anche se è prevedibile che le relazioni con Bruxelles miglioreranno. È come se il premier avesse compreso che non doveva riaprire il trauma che ha angosciato gli inglesi. Per la prima volta un leader progressista europeo è ricorso a un linguaggio di rassicurazione, che ha messo al centro bisogni e desideri quotidiani dei lavoratori. Il «rinnovamento nazionale» potrà assicurare un rimedio agli errori del passato, ma nessuna promessa demagogica è stata fatta.

Tuttavia, per affrontare il fallimento economico e sociale, i laburisti hanno bisogno di crescita. Lo ha riconosciuto Stamer al Times: «Il Regno Unito ha bisogno di tre cose: crescita crescita crescita».

Ma prima di arrivare al governo, i laburisti non hanno smentito i vincoli fiscali ereditati (a parole) dai conservatori: il deficit pubblico dovrebbe essere contenuto al 3% del Pil, il debito pubblico dovrebbe diminuire, senza contare che hanno promesso di non aumentare le tasse ai lavoratori. Starmer sa di avere di fronte una verità che non si può evitare: per affrontare il fallimento deve affrontare le questioni esistenziali del Paese. E non è detto che possa permettersi di agire con calma, ma potrebbe essere obbligato a decidere, mentre ancora il governo è nuovo e l’elettorato concorda che è necessario un cambiamento.

Nel suo discorso davanti al numero 10 di Downing Street, Starmer ha usato più volte una parola: urgenza. Il premier è consapevole che le aree del Paese che hanno meno potere politico, le regioni settentrionali di Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda, sono quelle che si sono più impoverite. Il risentimento e la rabbia che si sono abbattuti sui conservatori potrebbero riprendere antiche strade come le forme di separatismo, momentaneamente ridimensionate. Nel 2019 il PIL pro capite a Londra era di 73 mila dollari, quasi il 90% in più della Scozia o dell’Inghilterra orientale dove era di 38 mila dollari. La Brexit ha colpito l’economia manifatturiera, ma non l’economia dei servizi del sud est  e nel 2030 si calcola che il divario raggiungerà i 290mila dollari a persona. Persino Boris Johnson lo ha ammesso.

Affrontare il fallimento significa, quindi, trovare le risorse per avviare investimenti pubblici che correggano queste diseguaglianze. Non è affatto escluso che il moderato Starmer debba aprire il capitolo di una redistribuzione. Ma il premier dovrà indicare al Paese una nuova identità in cui credere, che potrebbe prevedere la revisione dell’architettura democratica. La Commissione di Brown ha stabilito un nesso tra stagnazione economica e forma di governo: ha proposto l’abolizione della Camera dei Lord per sostituirla con una elettiva delle regioni e delle nazioni. Ha consigliato l’avvio di una costituzione scritta che chiarisca la divisione anche territoriale dei poteri e rafforzi i diritti sociali protetti: «Alla radice di questo fallimento c’è un modo di governare non riformato ed eccessivamente centralizzato che lascia milioni di persone che si lamentano di essere trascurate, ignorate, invisibili». I perdenti della Brexit sono molti. Con il voto chiedono riconoscimento e rispetto sociale.

Salvarsi dal fallimento
Affrontare il fallimento significa affrontare un possibile naufragio. Starmer è parco di parole e di promesse, anche se cerca di infondere speranza, perché conosce il rischio. Forse il capo del governo pensa di restaurare su basi nuove la socialdemocrazia, seguendo l’esempio del passato, quando essa ha sostenuto il Paese mentre l’impero si stava disfacendo, e ha dato ai cittadini un senso di appartenenza, una direzione verso cui incamminarsi. Le forze stabilizzatrici di ieri si sono esaurite: lo sviluppo dell’impero, la rivoluzione industriale, la socialdemocrazia postbellica, la potenza militare. Anche l’identità protestante è in crisi in un Paese composto ormai da diverse religioni. C’è da chiedersi se potrà finanziare il vasto programma che gli impone il declino inglese senza aumentare il prelievo a carico della Londra finanziaria e dei ceti più ricchi. Così dando ragione a Sunak che lo ha attaccato sul ricorso alla leva fiscale. C’è da chiedersi se potrà innescare una crescita senza aprirsi in qualche modo al mercato europeo, non solo al commercio ma anche al capitale umano.

C’è da domandarsi se non dovrà impegnarsi subito nel ripristino dell’orgoglio per le istituzioni, innanzi tutto per il Servizio sanitario nazionale, e non dovrà velocemente convincere i cittadini che partecipano su un piano di pari dignità alla costruzione del futuro. Di conseguenza se non dovrà por mano proprio al sistema politico che ha portato il Paese al declino.

Un simile compito rende chiaro che la vittoria del Labour è la possibilità che il Regno Unito ha dato a sé stesso per salvarsi dal fallimento. Per questo Starmer deve creare un circuito virtuoso in cui un rilancio dell’economia alimenti un rinnovamento della democrazia. Questa attesa potrebbe non durare a lungo se i cittadini non vedranno miglioramenti in tempi brevi. La destra è stata messa da parte ma resta forte, Farage è riuscito ad entrare in Parlamento ed è pronto ad approfittare di ogni errore. Starmer avrà bisogno di coraggio.

Occorre creare un nuovo legame tra governanti e governati. Starmer è forse il primo leader progressista europeo che affronta i drammi della moderna società psicologica, percorsa da ansie e timori, oscillante tra disorientamento e riorientamento in modo tale da disfare la stessa comunità. Nella crisi inglese, come nella crisi occidentale, si intersecano la crisi della politica, le profonde trasformazioni sociali, economiche, tecnologiche della società, e la crisi identitaria, culturale, emotiva del demos. Fu la Brexit a dare avvio all’età del populismo trionfante. La crisi dell’Occidente si riflette nello specchio inglese. La storia di Keir Starmer è la storia di una vittoria che ora sfida il suo stesso vincitore.

Related posts

Dario Fo, Franca Rame e le lacrime per Salvador Allende

La polarizzazione populista è stata applicata ai populisti: Giorgia Meloni perde la sfida social

Politica nuova per un tempo nuovo